“Casablanca” è qualcosa di più di un film. È un paesaggio mentale, un sogno in bianco e nero dentro cui rimbomba Gershwin. La trama è semplicissima: Ilse, una profuga norvegese, è sposata con Laszlo, membro della Resistenza cecoslovacca. Entrambi fuggono dalla Francia occupata dai nazisti e si rifugiano a Casablanca, sotto il controllo del governo Petain ma, almeno nel film, ancora città “aperta”. Qui sperano di trovare il modo di raggiungere New York. Il destino mette sulla strada di Ilse un amore del passato, Rich Blaine. In entrambi rivive la passione ma alla fine Ilse sceglie di rimanere accanto al marito.
Ecco, la storia è tutta qui. E la sceneggiatura, a essere onesti, aggiunge pochissimo. Secondo Umberto Eco1 nel chiudere in fretta e furia il copione, appena tre giorni prima dell’inizio delle riprese, gli autori hanno fatto man bassa di tutto il «repertorio del già collaudato». Ma ecco svelato il segreto: quando si ha il coraggio di stra-abusare dei cliché «si raggiungono profondità omeriche» e «il colmo della banalità lascia intravedere un sospetto di sublime».
Insomma, “Casablanca” è un oggetto troppo naïve per non essere sofisticato. Stesso discorso vale per Rich, interpretato da Humphrey Bogart, uno che può permettersi di dire: «Con tanti ritrovi nel mondo doveva venire proprio nel mio?2» E sta parlando di Ingrid Bergman, cioè Ilse, la profuga norvegese.
Non ha nemmeno torto, Rich, finiscono tutti nel suo gin joint, una quarta dimensione, un ritrovo mentale in cui si materializzano desideri e paure del suo inconscio: il desiderio di essere un eroe, come Laszlo, la paura di essere un malvivente, come Ugarte (l’uomo che gli consegna due lasciapassare per il Portogallo e, quindi, per gli Stati Uniti). E cosa dire del faccendiere Ferrari, re del mercato nero di Casablanca, o di Renault, funzionario francese della Repubblica di Vichy?
Solo nella mente di Rich è possibile tenere assieme Renault e Ferrari, condannare il governo Vichy spedendo una bottiglia di “Vichy water” nel cestino dei rifiuti, vestire un partigiano cecoslovacco come un turista americano a Venezia. D’altronde Laszlo non è un partigiano qualunque, è una specie di supereroe. Laszlo è realmente esistito, ma è italiano e si chiama Randolfo Pacciardi.
Randolfo Pacciardi è il mitico comandante del Battaglione Garibaldi, in prima linea contro i fascisti di Franco. Terminata l’esperienza spagnola, nel 1937, passa in Francia e da qui, per sfuggire ai nazisti, arriva clandestinamente a Casablanca. Con lui c’è la moglie. La coppia resta in città per un paio di mesi, il tempo di procurarsi, con la complicità di un colonnello dei servizi francesi, due passaporti falsi e salpare per gli Stati Uniti. Come nel film di Curtiz.
Lo racconta lui stesso: «A Los Angeles, dove mi trovavo per un giro di conferenze della Mazzini Society, ricevetti una telefonata da Hollywood. Era il regista Michael Curtiz, il regista di Casablanca, che mi chiedeva di raggiungerlo sul set per raccontargli qualche episodio e qualche consiglio sulle vicende».
Prima di diventare il più eretico e il più odiato dei repubblicani, Pacciardi è davvero un supereroe, un cavaliere risorgimentale infatuato del pensiero mazziniano, un fanatico difensore della causa libertaria e popolare per cui stravedono i repubblicani della Maremma. Dove lui è nato.
A 17 anni si iscrive al Partito Repubblicano poi, finiti gli studi di giurisprudenza, diventa articolista per la “Voce Repubblicana”, organo del partito. A un certo punto deve anche difendere il giornale nella causa intentata per diffamazione da Italo Balbo. La vince e Balbo viene condannato alle spese processuali. Mussolini lo avverte: «È bene che la smetta, questo insulso avvocatino di Grosseto». E si capisce che le cose, per Pacciardi, si mettono male.
Tant’è che nel 1926 sfugge per miracolo a una retata notturna saltando dalla finestra della cucina e dandosela a gambe sui tetti di Roma. Grazie all’aiuto di alcuni contrabbandieri espatria in Svizzera e inizia un periodo di esilio che, per certi versi, ricorda quello del suo eroe Mazzini. Oltreconfine i suoi sforzi si moltiplicano: prima organizza il clamoroso volo di Giovanni Bassanesi, che dal Canton Ticino arriva su Milano e sgancia 150mila volantini di propaganda antifascista. Poi progetta di far saltare in aria Benito Mussolini con una bomba affidata all’anarchico Belloni e al repubblicano Delfini. Il piano fallisce ma Pacciardi è ormai nel mito, come Mazzini. E come Mazzini non si arrende mai, trama, cospira, sobilla, è una spina nel fianco.
Mentre è in Francia gli arrivano richieste d’aiuto per la lotta contro il regime di Franco. I repubblicani italiani, che non hanno dimenticato le tradizioni risorgimentali, vogliono una Legione di volontari, italiani ed europei, sotto il patronato politico di P.R.I., P.C.I. e P.S.I. Nasce così il Battaglione Garibaldi. Al comando c’è lui, Pacciardi, che guida i volontari nelle battaglie di Huesca, Villanueva del Pardillo, Jarama, Guadalajara.
Sulle sponde del fiume Jarama, nel febbraio del 1937, Pacciardi viene investito dalle schegge di una cannonata che lo scaraventano a terra e gli fanno perdere i sensi. Lo soccorre un altro italiano, un socialista, che diventa suo grande amico: Pietro Nenni. A riprendere tutta la scena ci sono le cineprese di Hemingway, che sta girando il documentario antifranchista “Tierra de Espana”. Il mese dopo, a Guadalajara, il battaglione Garibaldi se la deve vedere con i fascisti della Doria e quattro divisioni italiane, mandate in Spagna da Mussolini. Riuscirà a vincere lo scontro e a mettere in fuga i connazionali.
Un tipo come Hemingway, ovviamente, resta affascinato dal comandante italiano. Sulla rivista Ken lo definisce «beautiful in action» e nel romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi” lo chiama in causa col vero nome e racconta del periodo in cui è ministro della Difesa «di un paese impossibile da difendere». Cioè l’Italia.
In Spagna Hemingway e Pacciardi si frequentano. «In una serata di riposo della brigata avevamo invitato i giornalisti e gli scrittori stranieri presenti a Madrid. Faceva gli onori di casa il poeta Alberti che ci rallegrava con le sue improvvisazioni poetiche facilmente orecchiabili, come una parodia della ‘Cucaracha’; ed erano presenti molti scrittori spagnoli e stranieri. Hemingway si presentò con una giornalista di rara bellezza, Martha Gellhorn, anch’essa corrispondente di altri giornali americani»3.
E una sera Martha, che fa la corrispondente di guerra per il periodico americano Colliers, raggiunge il battaglione in riposo e si mette a parlare con un comandante bulgaro. Pacciardi è geloso, allora si avvicina e per fare un po’ lo sbruffone le propone: «Invece di scrivere sciocchezze sulle retrovie, perché non partecipi con me a un’azione di guerra?». Così vanno assieme al fronte. Poi, finita l’azione militare, a sera, devono attraversare un bosco e Martha, che sente fischiare pallottole in ogni direzione, gli chiede: «Ma chi è che spara?».
E Pacciardi: «Noi, loro, tutti».
«Sarebbe meglio dormire qui» propone lei. «All’alba ci orienteremo meglio».
Pacciardi sistema un telo a terra, le si stende di fianco e le accarezza il volto. E Martha: «Pacciardi, sono nelle tue mani. Ma sappi che non sono d’accordo. Sarebbe una violenza».
È innamorata di Hemingway. Così Pacciardi abbandona la prospettiva di una notte sotto le stelle e la riaccompagna in albergo.
Nel giugno 1937 il comandante riceve ordine di partecipare alla decimazione di anarchici e trotskisti del POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista). «Volevano che il battaglione Garibaldi andasse a Barcellona a massacrare gli anarchici…»4. Lui rifiuta e viene destituito. Racconta la Gellhorn: «Lo incontrammo a Valencia in abiti civili. Il governo aveva sciolto le Brigate internazionali, lasciandolo senza soldi e documenti, senza un futuro, apolide e spiantato. Gli si spezzava il cuore ma non si lamentò, non pronunciò parola. All’improvviso sentii Ernest piangere, appoggiato al muro. Prima non lo avevo mai visto piangere. Piangeva per Pacciardi che aveva odiato come rivale in amore».
L’ex comandante ripara in Francia e poi, come visto, a Casablanca con la moglie e, infine, negli Stati Uniti. Ora, per chi ha amato “Casablanca” è bello sapere che Laszlo, partigiano cecoslovacco in abito chiaro e panama, comandante del battaglione Garibaldi, supereroe della guerra civile spagnola, rivale in amore di Hemingway, una volta arrivato negli stati Uniti è ancora all’inizio della sua incredibile vicenda.
Dopo essersi dedicato alla propaganda antifascista assieme ad animi irrequieti come Sturzo, Toscanini e Salvemini, rientra a Roma nel ’44, riorganizza il Partito Repubblicano e, nel ’45, viene confermato segretario politico per acclamazione. È un’epoca così, i partiti acclamano segretari i supereroi, i cavalieri con qualche macchia ma di certo senza paura. Pacciardi vive da assoluto protagonista il referendum tra repubblica e monarchia così, appena saputo l’esito, scrive un articolo a nove colonne sulla “Voce Repubblicana”: Arrestate il Re. Poi partecipa ai primi governi di Alcide De Gasperi e viene nominato Ministro della Difesa dal 1948 al 1953. Perciò, gradualmente, si allontana da socialisti e comunisti. L’ultimo passo è l’ingresso nella Nato: a quel punto lo strappo col mondo della sinistra è definitivo. In Parlamento socialisti e comunisti si oppongono con tutte le forze a quella proposta. E Pacciardi, da simbolo dell’antifascismo, diventa un venduto (agli americani) e un servo (del capitalismo). Ilio Barontini, anche lui combattente nella guerra in Spagna, quando se lo vede davanti sbotta: «Questo qui lo dovevamo ammazzare in Spagna. Non l’ho fatto e me ne pento». La già pessima fama di Pacciardi peggiora negli anni ’60: lo accusano di essere l’ideatore di un piano per rapire il Presidente Gronchi. E andrà sempre peggio, anche con il suo partito. Quando la maggioranza vota l’appoggio al primo governo di centro-sinistra e lui, disobbedendo, si esprime per il no, viene espulso. E pensare che a capo dei socialisti, alleati nel governo di centro-sinistra, c’è il vecchio Nenni, l’uomo che l’aveva soccorso nella battaglia sul fiume Jarama.
Al congresso di Ravenna arriva alle mani con Ugo La Malfa, o almeno così si racconta. Pacciardi gli fa volare gli occhiali con uno schiaffone che lo manda a terra. Mentre cerca di recuperare le lenti La Malfa lo accusa di essere un fascista. Pacciardi non si scompone. Non ero io, dice, a fare il lacchè di Gentile alla Treccani.
Adesso Pacciardi è davvero solo: lo odiano tutti: comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani, fascisti e pure i repubblicani. Di certo non lo aiuta la svolta gollista e presidenzialista e i molti contatti con personaggi a dir poco discutibili. Fra questi il monarchico Edgardo Sogno, che lo coinvolgerà in uno sgangherato progetto di golpe, il cosiddetto Golpe Bianco, talmente grottesco che ancor oggi i giudizi oscillano tra barzelletta e dietrologia.
L’isolamento finisce nel 1981 quando il segretario Giovanni Spadolini, primo presidente del consiglio non democristiano, lo riammette nel Partito Repubblicano. Ma non basta a scongiurare la damnatio memoriae del mitico comandante del Battaglione Garibaldi, amico e rivale di Hemingway. Da acclamato eroe a odiatissimo eretico, senza più la sua Ilse e senza neppure un Renault a cui poter dire: «credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia».
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1 Umberto Eco, Casablanca, o la rinascita degli dei in “Dalla periferia dell’impero”, La Nave di Teseo 2016
2 Of all the gin joints in all the towns in all the world, she walks into mine?
3 Randolfo Pacciardi, “Protagonisti grandi e piccoli: Studi, incontri, ricordi”, Barulli 1972
4 Giuseppe Loteta, “Cuore da battaglia. Pacciardi racconta a Loteta”, Nuova Edizioni Del Gallo 1990