C’è questa poesia, di Pasolini, dedicata a Pietro Nenni. Non so quanti uomini politici abbiano meritato i versi di un poeta, uno vero. Il Nenni è fra questi.
…gli occhiali e il basco d’intellettuale,
e quella faccia casalinga e romagnola,
in fotografie, che, a volerle allineare,
farebbero la più vera storia d’Italia, la sola.
E questa storia potrebbe cominciare nel ’26, quando Filippo Turati lascia l’Italia per un esilio volontario. Sono le dieci di sera dell’11 dicembre. Da Savona, il vecchio padre del socialismo sale a bordo del motoscafo Oriens. Con lui ci sono Bauer, Parri, Oxilia, Da Bove, Rosselli e Pertini. Piove che dio la manda e tira un vento maledetto che gela le ossa. La traversata, con il mare in tempesta, dura dodici ore. Quando sono a largo Pertini canta l’Internazionale. Commovente.
Turati è calmo, nonostante tutto. «Con un mare indiavolato, con le onde che riempivano il brevissimo motoscafo, col cielo senza stelle, con una bussola folle, navigammo a lungo senza essere certi della rotta, talvolta sospettando di dover approdare o nell’arcipelago toscano o verso la Spagna, o magariddio in Sardegna». Al mattino compare all’orizzonte la Corsica. Sbarcano a Calvi, lontano dal luogo previsto per l’attracco. Da qui, dopo che il governo francese ha accolto la richiesta di asilo politico, Turati e Pertini si imbarcano per Nizza con l’obiettivo di raggiungere Parigi.
Più o meno negli stessi giorni arriva nella capitale francese un altro socialista, il Nenni, che si mette a capo della frazione fusionista, cioè quella che vorrebbe riunificare il PSI con il PSULI (Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani) di Turati. Un altro riformista del cazzo, per dirla con gli Offlaga Disco Pax? Non credo proprio.
I genitori del Nenni sono poveri diavoli, prestano servizio per una famiglia di nobili faentini. È per loro intercessione che, dopo essere rimasto orfano del padre, viene accettato nell’orfanotrofio “Maschi Opera Pia Cattani”. Ma il ragazzo è fuori posto.
O forse la storia cui allude Pasolini inizia ancor prima, con i moti del pane, quando il Nenni assiste a una carica della cavalleria contro dei disgraziati, uomini e donne inermi. Da quel momento, anche se ha solo 7 anni, diventa repubblicano. E da repubblicano, quando viene a sapere della morte di Umberto I per mano dell’anarchico Bresci, scrive sui muri dell’orfanotrofio «VIVA BRESCI!». Ha 9 anni. È decisamente fuori posto.
Fuori posto anche nella fabbrica di ceramiche dove lavora come scrivano. Siccome partecipa a uno sciopero di contadini viene licenziato dalla fabbrica e, contemporaneamente, espulso dall’orfanotrofio. Dopo essersi iscritto al Partito Repubblicano, sciopera con dei cavatori di marmo, protesta per la fucilazione del rivoluzionario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, sobilla i colleghi del catasto di Santa Sofia, dove lavora per qualche mese. Fuori posto anche lì. Viene licenziato «per cattiva condotta e per le idee politiche», annota la polizia. Che tempo qualche mese lo arresta.
Intanto il governo Giolitti occupa la Tripolitania e la Cirenaica. È il 1911. A Forlì socialisti e repubblicani guidano uno sciopero che dura 3 giorni. Il Nenni è finalmente al suo posto, in mezzo al casino, dove si becca tre sciabolate. Viene arrestato e condannato a un anno e quindici giorni di carcere. A Bologna, dove sconta la pena, è compagno di cella di un certo Benito Mussolini, che lui conosce perché romagnolo e perché socialista. Pochi anni dopo, nel 1914, al termine di un comizio antimilitarista ad Ancona, i carabinieri sparano e uccidono due militanti repubblicani e un anarchico. Segue una settimana di scioperi e manifestazioni e il Nenni, visto che c’è da far casino, diventa subito uno dei più attivi organizzatori. Di nuovo al posto giusto. «Furono sette giorni di febbre, durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l’urto che saliva dal basso…». La febbre passa e la rivoluzione finisce con un’altra condanna, amnistiata solo grazie alla nascita della principessa Maria di Savoia. Destino paradossale… per un repubblicano.
Intanto a Sarajevo Gavrilo Princip svuota la sua browning su Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e consorte. È l’inizio della prima guerra mondiale. Il Nenni è interventista e lo spiega nell’articolo “Vogliamo la guerra perché odiamo la guerra” (Lucifero, 6 settembre 1914). Così, quando l’Italia si butta nel conflitto, si arruola immediatamente volontario. Ignora, probabilmente, che bisogna prestare giuramento al re. Infatti rifiuta di giurare e finisce per l’ennesima volta in carcere. Arriva al fronte solo grazie all’intervento del ministro repubblicano Salvatore Barzilai, che – bontà sua – gli permette di andare a farsi ammazzare. Rimane in prima linea per 16 mesi e guadagna una croce di guerra al valor militare nonostante «le informazioni sfavorevolissime intorno ai precedenti politici del sergente Pietro Nenni».
Finita la guerra se la deve vedere subito con un nuovo nemico. Nel 1921 le camicie nere assaltano la sede milanese dell’Avanti! Il Nenni, tanto per cambiare, si precipita per scazzottare un po’ col fascistume. Mentre s’azzuffa conosce Giacinto Menotti Serrati, il direttore dell’Avanti! Sarà un incontro provvidenziale. Viene assunto dal giornale come corrispondente da Parigi e lì, nella capitale francese, il Nenni si iscrive al partito socialista. Già nel ’25 lavora come un forsennato per l’unità con i riformisti di Turati. Ma l’operazione fallisce perché Mussolini, il vecchio compagno di cella, liquida tutti i partiti di opposizione, PSI compreso. Ecco, è in questo clima che Turati e Nenni prendono la via dell’esilio.
All’inizio degli anni ’30 la frazione fusionista del Nenni e i socialisti di Turati danno vita al Partito Socialista Italiano-Sezione dell’Internazionale operaia socialista. Per non farsi mancare nulla, come delegato dell’Internazionale socialista il Nenni partecipa anche alla Guerra civile spagnola. Rientrato in Francia viene arrestato dalla Gestapo ed estradato in Italia. Qui lo aspetta il confino sull’isola di Ponza. Siamo nell’estate del ’43. Dalla finestra della sua stanza si rende conto del nuovo scherzo che il destino gli ha giocato: «Ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte». Il socialista è al confino per ordine di Mussolini, Mussolini per ordine del re.
Finalmente libero, combatte come partigiano nelle Brigate Matteotti e quando Pertini e Saragat, i futuri Presidenti della Repubblica, vengono arrestati, si mette in moto per farli evadere dal carcere di Regina Coeli. Ed è un bene perché, altrimenti, finirebbero fucilati alle Fosse Ardeatine. Proprio per quella rappresaglia il Comitato di Liberazione Nazionale vieta gli attacchi alle truppe tedesche. Il Nenni smadonna, la pensa diversamente: «se nessuno lancerà più bombe contro i tedeschi, le lancerò io». Ci vuole De Gasperi per smorzare la sua passione dinamitarda. «E sta’ buono, Pietro, non fare il Marat».
Ecco, questo è il Nenni. Come lo vogliamo chiamare? scavezzacollo? idealista? combattente? un altro riformista del cazzo? Personalmente condivido il giudizio di De Gasperi: un Marat. Socialista, libertario, giacobino.
Nel 1945, alla fine della guerra, entra nel governo di Ferruccio Parri. È ancora presente nel primo e nel secondo governo De Gasperi, fino al 1947, quando – assieme a Palmiro Togliatti – crea il Fronte Democratico Popolare: PSI e PCI uniti per le elezioni politiche del 1948. Ma è una disfatta. E qui bisogna tornare alla poesia di Pasolini.
Eppure, in quel mio slancio, mezzo
pazzo e mezzo troppo razionale,
c’era una necessità reale: lo vedo
meglio ora, che la collaborazione
è un problema politico: e Lei lo pone.
Dal quarantotto siamo all’opposizione:
dodici anni di una vita: da Lei
tutta dedicata a questa lotta – da me,
in gran parte, seppure in privato
(quanti interni terrori, quante furie).
Sono versi che risalgono al 1961. Tra il ’48 e il ’61 ci sono: l’allontanamento dal PCI (e il rapporto Chruščёv sullo stalinismo e i fatti di Ungheria), la creazione della corrente di “autonomia socialista” e lo scontro frontale con i carristi, l’astensione dal voto di fiducia al quarto governo Fanfani, grazie alla quale la DC, con Aldo Moro segretario, può governare. Sono le prove generali del centro-sinistra.
Io mi chiedo: è possibile passare una vita
sempre a negare, sempre a lottare, sempre
fuori dalla nazione, che vive, intanto,
ed esclude da sé, dalle feste, dalle tregue,
dalle stagioni, chi le si pone contro?
Essere cittadini, ma non cittadini,
essere presenti ma non presenti,
essere furenti in ogni lieta occasione,
essere testimoni solamente del male,
essere nemici dei vicini, essere odiati
d’odio da chi odiamo per amore,
essere in un continuo, ossessionato esilio
pur vivendo in cuore alla nazione?
Il Nenni pensa che non sia possibile. E si prepara a entrare nella stanza dei bottoni. È un’espressione che inventa lui, “stanza dei bottoni”. Prima non s’era mai sentita. Nell’ottobre 1962, durante un discorso sul settantesimo anniversario del PSI, dice: «Da ciò, il problema di chi presiederà alla politica di piano, di chi sarà nella stanza dei bottoni, ora che con l’accrescersi delle prerogative dello Stato nel campo economico i bottoni sono enormemente aumentati di influenza e di numero». Nel congresso di Milano del 1963 il partito approva la proposta di “partecipazione organica” al nuovo governo. È nato il centro-sinistra.
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce.
Per Nenni quel poco significa spingere per riforme economiche, semplificazioni burocratiche, modernizzazione scolastica. Ma alle politiche del maggio ’68 i risultati sono deludenti. E l’anno dopo, a congresso, accade l’irreparabile: la corrente autonomista viene sconfitta da quella massimalista di De Martino, mentre l’ala socialdemocratica lascia il partito. Da allora e fino al 1976 gli autonomisti vengono tenuti ai margini. Poi, il 16 luglio, in una riunione straordinaria all’hotel Midas, il comitato centrale del partito elegge segretario il delfino di Nenni: Bettino Craxi.
Senza ombre la vittoria non dà luce.
Una delle ultime immagini pubbliche del Nenni risale al 20 giugno 1979. È in pessime condizioni di salute ma vuole, anzi deve, presiedere la seduta di apertura dell’VIII legislatura. Il perché lo annota lui stesso nel diario: «Il giorno sette avevo scritto a Fanfani che non ero in condizioni di presiedere. Peggio di me stava il decano Ferruccio Parri. Se io non mi rendevo disponibile la presidenza sarebbe toccata al senatore Crollalanza, missino, già ras di Bari all’epoca del fascismo, una vergogna per il senato repubblicano. Ho quindi tagliato corto assumendo la presidenza».
Un altro riformista del cazzo? Non credo proprio.