Nella canzone “Khmer Rossa” degli Offlaga Disco Pax, l’io narrante Max Collini racconta della prima volta che fa l’amore con Ylenia, una quattordicenne con cui condivide una sconfinata fiducia nel socialismo. Lui ha vent’anni e lei lo vede «come un Dimitrov, un Majakowskji, un partigiano Jugoslavo». Niente a che spartire con «un Turati o un Nenni o qualche altro riformista del cazzo».
Ecco, devo dire, tanto accanimento nei confronti di Turati, a distanza di cent’anni, sembra poi anche esagerato. O forse no.
Già alla sua morte i compagni del PCI usano la mano pesante. Più di tutti Palmiro Togliatti, che nel 1932 è rifugiato a Mosca e da lì scrive una articolo di fuoco su “Lo stato Operaio”. In pratica, dice Togliatti, Filippo Turati è la sintesi di «di tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano». Di più: Turati è il simbolo del tradimento «degli interessi, delle aspirazioni, degli ideali di classe del proletariato».
Ma che cavolo ha combinato Turati per meritarsi una simile condanna? Un po’ di diffidenza deve averla suscitata la sua condizione familiare, figlio di due agiati borghesi di Canzo, in provincia di Como, con idee abbastanza conservatrici. Lui stesso ammette di aver ereditato dal padre, prefetto, «un certo lievito burocratico». E chissà, magari i tentativi di accreditarsi come poeta “scapigliato” sono il lascito della madre. Di sicuro, far fermentare la lirica scapigliata con il lievito burocratico non garantisce ottimi risultati:
Lo rividi in fuga il paesetto
ove a’ miei grami dì trassi il natale:
io lo guardavo torvo e con dispetto,
ma lui m’arrise umano e sempre uguale.
E le buone parole che m’han detto
l’ostier, le donne, il sindaco speziale,
le fanciulle sboccianti e la fatale
che agli incendi precoci aprimmi il petto!
Io ch’odio il tenerume e i poetini
piagnucolanti come ruscellini
solo al tinnir del campanil natìo,
sentii qualcosa in cor moversi anch’io
per la puntura delle rimembranze:
un misto di sospiri e di speranze.
(Canzo, 1883)
A sua discolpa va riconosciuto che il periodo favorisce la ribellione artistica più che la rivoluzione sociale, e la lotta al moderatismo culturale finisce per annacquarsi con la difesa del moderatismo politico.
Non è che tutto questo sia già chiaro nella testa del venticinquenne Turati, che infatti fatica a trovare un posto in società e, per giunta, mostra sintomi di scombussolamento emotivo che, all’epoca, viene sbrigativamente rubricato come “nevrastenia” o “melanconia”. Condizione in fondo accettabile per un artista che voglia prendere le distanze, anche da un punto di vista biologico, dal soporifero torpore del romanticismo italico.
Più probabilmente Turati soffre di depressione, patologia allora praticamente sconosciuta, e per questo gira l’Europa alla ricerca di un medico che sappia curare i suoi nervi. Ma non sarà la medicina ad aiutarlo, sarà la politica. E l’incontro con Anna Kuliscioff, nel 1884. Che lui stesso rievoca così: «Io rimasi senza parole. Anna era bellissima… un’apparizione di luce». C’è da crederlo se nel 1879, mentre la ragazza è sotto processo a Firenze, il giornalista Carlo Lorenzini, che assiste alla deposizione, rimane totalmente soggiogato dal suo fascino. Più tardi, ormai noto al grande pubblico con lo pseudonimo Carlo Collodi, confessa che il personaggio della fatina dai capelli turchini è ispirato proprio alla Kuliscioff.
La quale, sempre secondo il racconto di Turati: «ebbe quasi voglia di indietreggiare di fronte alla mia… bruttezza faunesca». In effetti, a guardare le foto, il confronto fra Turati e, per esempio, l’ex compagno di lei, Andrea Costa, è impietoso. Per fortuna (di Turati) Anna mal sopporta il paternalismo conservatore con cui viene trattata da Costa e s’innamora, invece, della «armonia tra la genialità e il cuore» di Turati. Inizia così uno dei sodalizi più incredibili nella storia politica italiana. Che avrà poi esiti assolutamente imprevisti: dall’anarchismo al socialismo rivoluzionario, passando per la socialdemocrazia, con approdo al marxismo e al socialismo riformista.
Ed eccolo, alla fine, il peccato mortale di Turati. In un’epoca in cui i grandi animi soffiano sulla fiamma della rivoluzione, l’ardore anarchico impugna la rivoltella e mira al cuore della monarchia, il quarto stato è pronto alle barricate e alla lotta contro l’arroganza dei padroni, lui predica l’avvicinamento graduale al socialismo e si mette a capo di una corrente chiamata, perciò, riformista.
Il 16 agosto 1892 nasce a Genova il “Partito dei Lavoratori Italiani”. Nel congresso che lo tiene a battesimo prevale la corrente riformista di Turati: un mix geopolitico di operaismo milanese, socialismo emiliano-romagnolo e attivismo di radice mazziniana sotto l’alto patrocinio di Marx ed Engels. Nemici dichiarati: la borghesia reazionaria e la politica autoritaria, bellicista e imperialista di Francesco Crispi. Obiettivi irrinunciabili: la sconfitta del capitalismo, l’emancipazione del proletariato, la conquista del potere e la socializzazione dei mezzi di produzione. Tutto senza rivoluzioni o spargimenti di sangue ma ricorrendo a un affollato pranzo di gala, da condividere con le avanguardie della borghesia progressista.
È per questo motivo che Togliatti, nel già citato necrologio del 1932, parla di «una intera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato, per servirli nel seno stesso del movimento operaio». È per questo motivo che Ylenia preferirà sempre un partigiano jugoslavo a un riformista del cazzo.
Nel congresso di Parma del 1895, la corrente di Turati è già in minoranza. E lo resterà in quelli del 1896 e del 1897. Quando nel 1898 scoppiano a Milano i moti di protesta per il rincaro del costo del pane, il Partito Socialista segue però la linea turatiana, ossia la “propaganda contro l’insurrezione”. «Non fate dimostrazioni – dirà – che sarebbero pretesto ad una repressione feroce. Il Governo è pronto, noi no». Ciò nonostante Turati e la Kuliscioff vengono arrestati. Lui viene condannato a dodici anni, lei a due. In quell’occasione gli imputano anche l’aver scritto i versi del Canto dei lavoratori, l’inno del partito operaio. Usciranno entrambi grazie a un indulto.
E finalmente, nel congresso di Roma del 1900, la maggioranza del partito fa proprie le tesi riformiste. Il dialogo parlamentare con Giolitti è finalmente possibile.
«E qui bisogna sfatare un’altra leggenda – insiste Togliatti – quella di Turati onesto, addirittura sincero e così via. Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo».
Per Togliatti, quindi, è opportunismo politico, ma l’appoggio al governo Zanardelli-Giolitti ha davvero l’obiettivo di conquistare alla causa riformista l’ala progressista della borghesia. Innegabilmente risalgono a quegli anni alcune importanti conquiste per il lavoro femminile e minorile, le ‘otto ore’ lavorative, il suffragio universale, le leggi per le cooperative. Non lo capisce Togliatti, non lo capiscono nemmeno Labriola, Ferri e Salvemini. Per la verità non lo capisce nemmeno la Kuliscioff, che a un certo punto comincia a dubitare di lui come il Dimitrov di Ylenia comincia a dubitare del socialismo. «Mi dispiace – gli dice – ma è la tua malattia: ti metti sempre troppo dal punto di vista del governo, e qualche volta subisci l’illusione di far parte del medesimo. Questa aberrazione psichica non ti permette d’infilare la via giusta del ragionamento dal nostro punto di vista».
Quando poi l’Italia entra in guerra contro la Libia, nel 1912, salta ogni precario equilibro. Nel congresso di Reggio Emilia è di nuovo in minoranza: come si può stringere un’alleanza con i partiti borghesi, inclini alla guerra e al colonialismo? E la frattura si aggrava con lo scoppio della I guerra mondiale. Ovviamente Turati è contrario. Ma anziché sfruttare la guerra imperialista per innescare il processo rivoluzionario, come vorrebbe Lenin, vacilla: «anche la nostra patria è sul Grappa», dice, e intanto non dorme, fuma 40 sigarette al giorno e beve litri di caffè.
In quel momento le prende un po’ da tutte le parti. Dalla corrente massimalista, dall’ala interventista del partito (nella quale era confluito anche Mussolini, poco prima d’essere espulso) e, ovviamente, dalla destra. Ce l’hanno con lui perfino i futuristi. Ecco cosa scrivono Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia, Sironi e Piatti in “L’Orgoglio Italiano. Manifesto futurista” del 1915: «Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l’italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e straccione che ha caratterizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi come nemici della patria, e vanamente frustati con abbondanti e continue doccie di sputi». Per dire.
Al congresso di Roma del 1918 i massimalisti sono in netta maggioranza. E l’anno dopo, a Bologna, i numeri sono ancor più pesanti. Nel frattempo i bolscevichi russi dimostrano che la strada delle rivoluzione è davvero a portata di mano. Quel che succede a Livorno nel 1921, perciò, è un copione già scritto. I riformisti rimangono legati alla II Internazionale, mentre la corrente d’obbedienza leninista si separa e fonda il Partito Comunista d’Italia. Nel frattempo i socialisti puntano alla ripresa della lotta di massa e visto che Turati, in rotta con la Direzione, rilancia per l’ennesima volta l’alleanza parlamentare con popolari e liberali in ottica antifascista, viene espulso.
A quel punto, assieme a Giacomo Matteotti, fonda il Partito Socialista Unitario, gettandosi anima e corpo nella battaglia contro le camicie nere di Mussolini. Sarà quella, in un certo senso, l’ultima e la più importante delle battaglie. E anche, purtroppo, l’ultimo e il più importante dei fallimenti, mentre ormai le squadracce del duce cantano sotto le finestre della sua casa in piazza Duomo: «con la barba di Turati / noi farem gli spazzolini / per lustrare gli stivali / di Benito Mussolini».