Renato Guttuso è uno dei pittori italiani più famosi del ‘900 e uno dei quadri più famosi di Renato Guttuso è “I funerali di Togliatti”. La tela viene dipinta nel 1972, otto anni dopo la morte del segretario del PCI. È una tela di grandi dimensioni: 3,5 metri d’altezza per 4,5 metri di lunghezza. La salma si trova in una posizione leggermente decentrata, circondata da fiori colorati. Tutt’attorno volti di uomini e donne inframezzati da fiammeggianti bandiere rosse. Molti di quei volti appartengono al pantheon del comunismo: Lenin, Berlinguer, Gramsci, Sartre, Neruda, Dolores Ibarruri, Angela Davis, Nilde Iotti. Non tutti, per ovvie ragioni anagrafiche, hanno potuto partecipare ai funerali di Togliatti. Nel quadro il pittore inserisce anche Elio Vittorini, appena dietro Berlinguer, spalla a spalla con Sartre. Scelta curiosa, visti i pessimi rapporti fra Vittorini e il Migliore.

Non è facile portare un soprannome così, il Migliore. E anche se gli è stato rifilato con un po’ di sarcasmo, resta decisamente impegnativo. Togliatti ha vissuto in Russia per più di dieci anni, ha fatto parte del Comintern, è stato tra i più vicini a Stalin ed è anche sopravvissuto alle purghe degli anni ‘30. Perciò, tornato in Italia, quasi nessuno osa discutere le sue idee. Gode, in un certo senso, del dogma dell’infallibilità, come un papa. Infallibilità in materia di fede, certo, ma quella nel comunismo non è forse una fede? Sicché, a proposito di ortodossia comunista, non esiste uomo che possa tenergli testa, è infallibile, il Migliore appunto.
Nell’arte e nella letteratura il discorso ortodossia si fa scivoloso. Non che artisti e scrittori abbiano diritto a un salvacondotto: anche loro rischiano processi per eresia. Una sera dell’ottobre 1932, a casa di Gor’kij, Stalin in persona si occupa di letteratura del popolo: «I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati. […] E per questo io brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime».
Si vede che allo scrittore Elio Vittorini non va giù l’idea di essere un ingegnere di anime, men che meno di anime d’acciaio alla guida di carri armati, e allora pubblica sulla rivista “Il politecnico” una lettera di Jean-Paul Sartre. È convinto che si debba dare spazio a tutte le voci del panorama intellettuale contemporaneo, anche all’esistenzialismo francese, secondo cui, fra l’altro, non v’è modo di prevedere quale sarà il corso della Storia dato che, volenti o nolenti, bisogna fare i conti con la libertà dell’uomo. Per Togliatti, invece, l’esistenzialismo e le altre correnti avanguardiste, astratte e decadenti, si riducono a una ricerca del diverso e del sorprendente e sono incapaci di dare un contributo innovativo perché vittime del misticismo della cultura. Che, detto in parole povere, significa lasciare le anime d’argilla alla guida dei carri armati.
La polemica con il Migliore è ormai innescata e nel ’47 Vittorini rincara la dose chiarendo che la sua adesione al PCI è più che altro un’adesione agli uomini del PCI, «i più onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi». Che, detto in parole povere, significa fregarsene del partito e di tutti i discorsi sul misticismo della cultura, sui carri armati e sulle anime d’acciaio. Solo tre anni dopo Vittorini si definisce un ex comunista, cioè uno che, avendo aderito al comunismo sul piano della Storia, su quel piano lo giudica diverso da quel che sarebbe dovuto diventare.
E qui Togliatti usa la clava. In un articolo uscito su Rinascita nel ‘51, firmato con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, avverte subito che dell’abbandono del PCI da parte di Vittorini se ne sono accorti in pochi. D’altra parte è difficile dire se lo scrittore sia mai stato comunista: non si è mai iscritto al partito e non ha mai militato. Perciò, che sia comunista o che non lo sia più, cosa cambia? Aveva creduto che i comunisti fossero liberali? Be’, dice Togliatti, i comunisti sono comunisti, non sono liberali. Se l’avesse chiesto apertamente, gliel’avrebbero detto subito. Insomma, conclude Togliatti, qui mancano le basi per una visione generale del mondo e queste critiche non sono altro che «noiosa propaganda reazionaria».
Come si vede il rapporto del Migliore con gli intellettuali è abbastanza complicato. D’altro canto per bocca del compagno Ždanov la madre Russia ha già elaborato la dottrina per cui «la verità e il carattere storico concreto della rappresentazione artistica devono unirsi al compito di trasformazione ideologica e di educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo». E Togliatti vuol garantire che i comunisti italiani rispettino il dogma. Vittorini non è il solo a farne le spese. Quando il Migliore viene a sapere che l’Alleanza della Cultura di Bologna organizza a palazzo Re Enzo la “Prima mostra nazionale d’arte contemporanea” e che a questa mostra partecipa il Fronte Nuovo delle Arti, un movimento di astrattisti di cui fa parte anche Guttuso, torna a randellare: «È una raccolta di cose mostruose: riproduzioni di cosiddetti quadri, disegni e sculture che a causa dell’Alleanza della Cultura di Bologna sono stati esposti in quella città in una “prima [sic!] mostra nazionale d’arte [resic!] contemporanea”. Come si fa a chiamare “arte”, e persino “arte nuova” questa roba, e come mai hanno potuto trovarsi a Bologna, che pure è città di così spiccate tradizioni culturali e artistiche, tante brave persone disposte ad avallare con la loro autorità, davanti al pubblico, questa esposizione di orrori e di scemenze come un avvenimento artistico? […] Suvvia! Abbiate coraggio! Fate come il ragazzino della novella di Andersen: dite ch’è nudo, il re; e che uno scarabocchio è uno scarabocchio».
Certo fa specie che il Migliore liquidi il Fronte Nuovo con argomenti che sono un po’ l’equivalente dell’abusato commento «lo potevo fare anch’io!» riservato alle opere d’arte contemporanea.
“Lo potevo fare anch’io!”, fra l’altro, è un libro del critico Francesco Bonami in cui il povero Guttuso viene letteralmente fatto a pezzi: «Guttuso amava le donne, e i nudi femminili (o meglio i particolari courbettiani dei nudi femminili) sono stati uno dei suoi soggetti favoriti. Purtroppo il risultato sembra essere più adatto a un titolo del tipo “origine della serata” piuttosto che origine del mondo. L’arte di Guttuso si ferma prima del mondo, bloccata dentro il ciclo troppo stretto delle ventiquattro ore». Almeno Bonami salva “I funerali di Togliatti” che, a suo dire, celebrano la realtà così com’è: senza pathos, senza trucchi, senza profondità.
Guttuso risponde a Togliatti su Rinascita, con un articolo in cui rivendica il diritto degli artisti a confrontarsi con le esperienze d’avanguardia, quelle che il fascismo ha cercato di stroncare e che il comunismo, invece, dovrebbe incoraggiare. E la cosa finisce lì: Guttuso resta Guttuso, gli scarabocchi restano scarabocchi, il Migliore resta il Migliore, il più abile stratega di un partito di lotta e di governo, il più astuto propugnatore di una “democrazia progressiva” da raggiungere rispettando, non senza spericolati funambolismi, la Costituzione italiana e il realismo sovietico. Fino alla sua morte, avvenuta il 21 agosto 1964 a Yalta. Una settimana dopo la città russa di Stavropol’-na-Volge cambia nome e diventa Tol’jatti.

I funerali si tengono a Roma il 25 agosto. Non so dire se Guttuso riesca a celebrarli per quello che sono, senza sovrappiù di pathos, trucchi e profondità, come pretende Bonami. Di certo si toglie la soddisfazione di includere nel quadro lo scomunicato Vittorini, dipingendolo in una posizione speculare a quella di Georgi Dimitrov, primo ministro della Repubblica Popolare di Bulgaria, e – ma questa è solo una coincidenza – teorico della “democrazia progressiva”, concetto formulato prima che il comunismo cominciasse a diventare qualcosa di diverso da quel che la Storia gli chiedeva di diventare. Uno scarabocchio, avrebbe detto Vittorini innescando una nuova accesissima polemica con Roderigo di Castiglia.