Non piace a nessuno, non serve a nessuno

Scuola di design di Providence, Rhode Island. Qui è conservata una straordinaria tela di Silvestro Lega, un pittore d’indole randagia e brontolona, come si legge in una sua biografia del 1885, che scarabocchiando in continuazione su muri e scartafacci, dimostra alla famiglia, e non solo, di avere un talento precocissimo e fuori dal comune.

Nel marzo 1872, mentre si trova a Firenze, viene a sapere che a Pisa è morto Giuseppe Mazzini, che lui considera un eroe. Allora si precipita in quella città e bussa a casa Rosselli, dove è allestita la camera ardente. Se potesse monterebbe il cavalletto e si metterebbe a lavoro seduta stante. Ma non può. Allora fa un paio di scarabocchi sui suoi scartafacci, tira giù qualche appunto e fissa nella mente l’immagine dell’uomo, i suoi vestiti, la stanza. Poi, in studio, dipinge il “Mazzini morente”, aiutandosi con un modello e un ritratto fotografico.

Della salma, intanto, si occupa una bislacca comitiva. La massoneria vuole imbalsamarla e alcuni discepoli di Mazzini sono d’accordo: l’ostensione del suo corpo può giovare alla propaganda repubblicana. Il compito viene affidato a Paolo Gorini, curioso personaggio a metà strada fra l’alchimista scapigliato e lo scienziato pazzo, donnaiolo impenitente e massimo esperto del processo di putrefazione dei corpi. Interessi, quello dei corpi femminili e dei corpi in putrefazione, in evidente contrasto fra loro e tali da costringerlo a incontrare le amanti ovunque fuorché a casa propria. Infatti, come racconta il poeta Carlo Dossi, tiene «nella sua stanza da letto pezzi di gambe e di braccia nei cassettoni e nel comodino. Sotto il letto ha poi un bimbo essiccato; nella saccoccia: dita; nel taschino del gilet: bottoni scolpiti in carni impietrite». Nel 1856 esce un articolo sulla “Gazzetta della Provincia di Lodi e Crema”: alcuni testimoni riferiscono che il Professore Gorini li ha «invitati presso di sé ad assaggiare un pezzo di manzo da lui preparato e conservato in una cassetta apposita di legno per circa 8 mesi; questo pezzo cucinato a lesso ha dato un brodo eccellentissimo, non distinguibile da quello dato dalla carne fresca, e il manzo stesso è stato trovato tenero e gustoso con tutte le qualità proprie di quello macellato di poco tempo». Cesare Abba, reduce dalla spedizione dei Mille, lo ricorda a lavoro, intento a salvare dal disfacimento – attraverso un misterioso processo di “pietrificazione” – gli avanzi di Mazzini. L’esito non è incoraggiante, il volto è deformato e il garibaldino fa fatica a trattenere una smorfia di sgomento. Ma Gorini è ottimista. Dice Abba: «E intanto, dalle profonde tasche del soprabitone tirò fuori un piedino di bimbo, e lo mostrò. Pareva di marmo quel piedino! Era ancora quasi roseo, vivo. “Fatelo scivolare sul pavimento” disse il dottore a uno che gli levò di mano quel piedino. E quegli si chinò, e sulle lastre di marmo lo fece sonare come marmo appunto».

Intanto Silvestro Lega termina l’opera nel suo studio e il risultato è l’esatto contrario di quello che sperano di raggiungere la massoneria, i mazziniani e Gorini. L’uomo più conosciuto e inafferrabile d’Europa, il cospiratore che Metternich descrive così: «Ebbi a lottare con il più grande dei condottieri, Napoleone, a me è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano e un papa; ma nessuno sulla faccia della Terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo italiano; emaciato, pallido, straccione ma facondo come un uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante e infaticabile come un innamorato», insomma, il “manigoldo italiano” che la massoneria vorrebbe santificare e mettere in concorrenza con i martiri cristiani, proprio lui viene ritratto da Lega senza un briciolo di enfasi, in una bellissima dimensione umana, di totale sfinitezza, di resa incondizionata al fallimento.

Sono gli ultimi istanti, Mazzini è girato sul fianco destro, sonnecchia ed è febbricitante. È coperto da uno scialle a scacchi, lo stesso che ha avvolto negli ultimi istanti di vita un altro repubblicano, Carlo Cattaneo. Un legame tutt’altro che simbolico: entrambi eletti deputati e nessuno dei due disponibile a entrare nel Parlamento post-unitario: si farebbero tagliare e mummificare un braccio da Gorini piuttosto che giurare sullo Statuto albertino e dichiararsi fedeli ai Savoia.

Le mani di Mazzini sono dipinte a riposo, una sull’altra. Ed è già questo un manifesto programmatico. Potrebbero stringere l’opera “Dei doveri dell’uomo”, un discorso molto moderno rivolto ai lavoratori e con un’impostazione, diciamo così, di classe. Fortunatamente Lega resiste alla tentazione. Non vuole scimmiottare la ritrattistica del potere, che è sempre pomposa, e non vuole svilire la lunga esperienza londinese da cui, in effetti, nasce quell’opera.

A Londra Mazzini arriva dopo molte peripezie. Arrestato in Italia, viene assolto ma comunque condannato all’esilio. Si trasferisce a Marsiglia e qui fonda la “Giovine Italia”. Da Marsiglia passa in Svizzera, da dove viene espulso. Fugge in Germania e poi a Calais e da qui, nel gennaio 1837, arriva a Londra. Ha 32 anni e fa una vita terribile. È senza un soldo e in mano agli strozzini. Lavora come recensore per un giornale letterario finché decide di aprire una scuola per figli di italiani emigrati. È così che entra in contatto con la classe operaia, alla quale è appunto destinata l’opera “Dei doveri dell’uomo”.

A Londra Mazzini si conquista la fama di terrorista e menagramo: veste di nero da capo a piedi: giacca nera, camicia nera, fazzoletto nero al collo, panciotto nero, pantaloni neri, neri perfino i calzini. Dice di essere in lutto per l’Italia, un lutto che vuol portare fino a che la nazione sarà «una, indipendente, libera e repubblicana». Il 10 marzo 1872, giorno della sua morte, l’Italia è unità da più di 10 anni. Eppure osservando il quadro di Lega si nota spuntare, da sotto lo scialle a quadri, una sciarpa nera che gli avvolge il collo. E la camicia, benché ravvivata al polso da una nota di colore, è a fondo nero. Il fatto è che i Savoia sono ancora al loro posto, anzi, l’unità si è realizzata sotto il loro patrocinio, circostanza auspicabile per Cavour, inaccettabile per Mazzini.

Mazzini e Cavour si odiano. Dopo il totale fallimento della spedizione di Carlo Pisacane a Sapri, il conte Cavour usa parole feroci contro il repubblicano, lo bolla come il «capo di un’orda di fanatici assassini». Mazzini gli risponde così: «Tra Noi e Voi, Signore, corre un abisso. Noi siamo l’Italia, Voi rappresentate la vecchia, cupida e paurosa aspirazione di Casa Savoia».

E comunque, ormai in fin di vita, Mazzini deve sentirsi sfiancato dalla vita. È ricercato dalle polizie di mezza Europa, privato dell’identità, osteggiato dai socialisti, deriso da Marx che lo chiama «vecchio somaro», tenuto a distanza da Garibaldi e disprezzato da Bakunin. Nella stanza in cui sta morendo regna il silenzio. Di lì a poco si scatenerà una retorica roboante. Però ora, nell’istante immortalato da Lega, c’è solo Pippo, come lo chiamano a casa Rosselli. E in effetti Pippo è più vicino ai ritratti un po’ mesti di Carducci e D’Annunzio, all’esule antico «che giammai non rise» e all’esule «smorto tutto fronte e sguardo», oppure alla maschera lontana e ieratica di Servillo in “Noi credevamo”, che all’immagine dell’oratore poliglotta e fascinoso cospiratore che fa stragi di cuori nei salotti radicali e manda a morire giovani martiri lungo le strade della penisola.

Gli occhi sono chiusi, le labbra cucite, la voce spenta. Non resta nulla della mente che può aggirare ogni sorveglianza e depositare un messaggio perfino sulla carrozza di Pio IX: «Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e corruttela, ad essere apostolo dell’eterno Vero. Siate credente. Aborrite dall’essere re, politico, uomo di Stato. Unificate l’Italia, la Patria Vostra». Il papa, ovviamente, preferisce restare re, politico e uomo di stato. E quando il 9 febbraio 1849 nasce la Repubblica Romana, di cui Mazzini è triumviro, Pio IX scappa a Gaeta e da lì minaccia di scomunicare tutti. Non ce n’è bisogno. Il primo luglio, dopo cinque mesi soltanto, l’Assemblea Romana si arrende ai francesi. Ennesimo fiasco, forse il più amaro per Mazzini.

Su tutto questo, su questa infinita serie di fallimenti, si stendono i colori di Lega, tutti virati al silenzio. Ma il quadro non piace a nessuno. Nemmeno ai repubblicani. E di nessuna corrente. Non piace ai repubblicani intransigenti, ai repubblicani astensionisti, ai repubblicani garibaldini e neppure ai repubblicani riformisti. Il Mazzini morente non piace a nessuno e non serve a nessuno. Meglio la consistenza fisica di una salma pietrificata che la sublimazione artistica di un uomo sconfitto. A chi serve un uomo sconfitto?

Un critico d’arte dell’epoca scrive: «il compratore del quadro converrà che s’avvezzi a tenersi sempre dinanzi agli occhi un vero moribondo». Ma di compratori, avvezzi o meno, non ce n’è. Non se trovano nemmeno con una pubblica sottoscrizione. E per la tela, come per il suo protagonista, comincia l’esilio. Comprata da un collezionista inglese, viene infine battuta all’asta da Christie’s. È il 1959. Oggi è esposta alla Scuola di Design di Providence, nel Rhode Island.

Mauro Orletti

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