Partiamo da Bonfiglio Liborio, il protagonista assoluto di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (Minimum Fax 2019), romanzo praticamente perfetto di Remo Rapino, scrittore abruzzese nato a Casalanguida e oggi residente a Lanciano, Langianə per gli autoctoni. Bonfiglio Liborio si porta appresso «truscia e segni neri a tavoletta», marchi di sventura che la vita gli ha lasciato addosso: un padre mai conosciuto e la sua eredità, gli occhi, «la sguardatura», uguale identica alla sua; una madre che muore improvvisamente e troppo presto; un nonno che schiatta in cantiere anche prima della madre. Non ci resta nessuno con Bonfiglio Liborio che, in partica, deve vivere tutta una vita da solo.
Parte da qui, mi pare, quel suo modo di stare al mondo un poco ripiegato su se stesso. Gli altri, tutti gli altri uomini e le altre donne, esistono certo e con loro interagisce ma, salvo alcune eccezioni, non mette a fuoco le loro identità. E quindi ci sono quelli del paese, che alla fine della fiera lo considerano ‘na «cocciamattə», i tedeschi che sanno solo strillare raus ogni cinque minuti, «e poi schnell di qua e schnell di là», i «mericani» e i loro «occhei occhei», ripetuti da giovani partigiani mentre infuria la guerra e il mondo si sta a «fracicare». Sono pochissimi i personaggi che prendono un volto e una voce, cioè il volto e la voce che Bonfiglio Liborio ha deciso di affibbiargli: il maestro Cianfarra Romeo, uno dei pochi a fargli dei complimenti e perciò modello e riferimento costante, pietra di paragone di tutte le persone che si accorgono della sua esistenza e lo aiutano; Giordani Teresa, il primo amore che, però, prima lo bacia e poi si sposa con Maccarone lo stoffaro, ricco e «ciacciotto»; Mastro Girolamo della barberia De Angelis, che gli offre lavoro e consigli; lo sciupafemmine Venturi Ermes, tutto bretelle e brillantina, «puttaniere specializzato di Bagnacavallo dell’Emilia e della Romagna», inguaiato di brutto dalla sifilide; Boschetto lo svracciato, operaio alla Ducati finché non perde il braccio, tagliato come ‘na «fetta di ventricina»; il dottor Mattolini Alvise, depositario di una grande verità, cioè che: «non è mica tanto matto sto mezzomatto di Bonfiglio Liborio».
Proprio così, Bonfiglio Liborio non è ‘na cocciamattə, è ingenuo certo, incredibilmente ingenuo se vogliamo essere precisi, pure sfortunato, ma non un pazzo. È uno che vive sulla difensiva, che si apre con pochissime persone e che perciò vive la propria vita in un dialogo costante con sé stesso. Un marginale che a causa di «truscia e segni neri a tavoletta» è costretto a cavarsela da solo, senza una guida, senza un compagno con cui fare a mezzo delle disgrazie. Perciò decodifica il mondo secondo criteri artigianali, fatti in casa, che lo costringono a declinare l’esistenza sub specie interioritatis, se si può dire così. E quindi ogni scelta azzeccata è merito degli insegnamenti del maestro Cianfarra Romeo, ogni tradimento è specchio del tradimento di Giordani Teresa, ogni vendetta è la vendetta contro Maccarone lo stoffaro. E tornano in modo ossessivo pure Boschetto l’operaio fiommista, dimostrazione vivente della «lienazione» del lavoro, e pure Venturi Ermes, che non c’è davvero limite a quello che la vita ti combina fra «truscia e segni neri».
Ed è qui la perfezione del romanzo di Remo Rapino, nell’aver creato un personaggio memorabile che sta su, che regge dall’inizio alla fine, grazie alle cose che pensa e, soprattutto, grazie a come dice le cose che pensa. Cioè al linguaggio. Che, a me sembra, e lo dico da Abruzzese, è un linguaggio letterario, e lo dico nel senso migliore del termine, con invidia, per dire che siamo di fronte a un’operazione narrativa mirabilmente riuscita. Rapino infatti non è un semicolto, tipo uno dei semicolti che racconta la propria vita nella sorprendete raccolta “Vite sbobinate e altre vite” di Alfredo Gianolio (Quodlibet 2013), e non è nemmeno un semicolto che butta giù le proprie memorie, tipo Vincenzo Rabito in “Terra matta” (Einaudi 2007). Rapino è un insegnante di Lanciano, Langianə per gli autoctoni, che con la lingua ci sa fare davvero. E infatti usa in modo magistrale una miriade di espedienti: il dialetto, le storpiature, i neologismi, la scelta di nomi e cognomi, gli accostamenti, le fisse linguistiche, le parole che tornano, intere frasi che si ripetono, i refrain del cervello. Che pure quando deve mandare Bonfiglio Liborio sottoterra, lo fa con quattro parole, precise, che riassumono l’intero libro, 80 anni e passa di truscia e segni neri. Sono le quattro parole che Bonfiglio Liborio vorrebbe sulla lapide e che, per finire come si deve, voglio citare:
QUI finalmente RIPOSA
LIBORIO BONFIGLIO
Fiommista
nato 22 agosto 1926 morto… (ce lo mette il marmista)
Aveva gli occhi uguali a quelli di suo padre
Volare oh oh nel blu dipinto di blu (se ci capa).
[Remo Rapino, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Minimum Fax 2019]