Il monumento nazionale

Benedetto Croce diventa ministro della Pubblica Istruzione nel giugno 1920, nel V governo Giolitti. All’epoca la sede del ministero è a palazzo della Minerva, nell’omonima piazza. La piazza si chiama così perché in quell’area, nel I secolo a.C., c’era un tempio dedicato a Minerva, dea della saggezza. Poi lì sopra, nel 1280, i domenicani fanno costruire una chiesa dedicata a Maria, Santa Maria sopra Minerva appunto. La chiesa viene quindi unita a un convento e, visto che i domenicani sono grandi predicatori e i grandi predicatori devono avere un’ottima preparazione, il convento diventa un centro di studi teologici. Dopo, nel XVII secolo, è sede dell’inquisizione romana e teatro del processo a Galilei. Oggi il convento non c’è più, al suo posto, dopo varie destinazioni e molti inquilini, c’è la biblioteca del Senato. Il palazzo è noto come palazzo della Minerva e lì, nel 1920, entra da ministro Benedetto Croce. Per via all’amicizia con il Direttore Generale della Belle Arti, don Benedetto ha già frequentato quelle sale. E la prima volta che mette piede a palazzo deve rispondere alle domande dell’usciere:

  • Chi devo annunciare, senatore?
  • No, non sono senatore – risponde Croce.
  • Deputato?
  • Neppure.
  • Professore?
  • Neanche.
  • Commendatore?
  • Nemmeno Cavaliere – taglia corto il filosofo.

E l’usciere:

  • Eeeeh ma non vi preoccupate, la faremo! la faremo!

E infatti lo fanno sanatore e poi, appunto, ministro. Ha 53 anni e una produzione sterminata alle spalle: opere di filosofia e storia, saggi di politica, scritti sull’arte e la letteratura. Titoli che oggi, francamente, suonano poco invitanti. Per citarne una minima parte: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte; Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799; Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici; Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia; Logica come scienza del concetto puro; Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia; Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono. E d’altro canto, nel Contributo alla critica di me stesso, dice: «a sei e sette anni non gustavo maggior piacere che l’entrare, accompagnato da mia madre, in una bottega di libraio, guardare rapito i volumi schierati nelle scansie, seguire trepidante quelli che il libraio porgeva sul banco per la scelta e recare a casa i nuovi preziosi acquisti, dei quali perfino l’odore di carta stampata mi dava una dolce voluttà». Insomma, anche se non è laureato, sembra fatto apposta per il palazzo della Minerva, convento domenicano, centro di studi teologici, sede del Sant’Uffizio, ministero della Pubblica Istruzione e, da ultimo, biblioteca del Senato. Per don Benedetto, che Gramsci chiamerà “il papa laico”, è destino.

Croce vive fra i libri, anche in senso letterale, vive nella sua biblioteca. Durante i bombardamenti della II guerra mondiale si rifiuta di scendere nei rifugi, non vuole abbandonarla. Un giorno la sirena comincia a suonare mentre sono ospiti a casa sua l’editore Laterza e altri amici. Cominciano a piovere bombe ma Croce fa il diavolo a quattro per rimanere dov’è. Alla fine lo convincono a prendere le scale per andare nel rifugio e Laterza, che è l’ultimo della fila, si sfoga: «Siamo riusciti a portare in salvo il monumento nazionale!»

Ecco Croce, nel 1920, è un monumento nazionale. Gli si potrebbe dedicare una statua in piazza della Minerva. Solo che lì, in effetti, un monumento già c’è. È l’obelisco della Minerva, un obelisco egizio che, su progetto di Bernini, viene sistemato sul dorso di un elefante di marmo.

Sul basamento c’è una iscrizione che dice: «Chiunque qui vede i segni della Sapienza d’Egitto scolpiti sull’obelisco, sorretto dall’elefante, la più forte delle bestie, intenda questo come prova che è necessaria una mente robusta per sostenere una solida sapienza». Fra l’altro Bernini ha progettato il monumento in modo che l’obelisco scarichi tutto il peso sulle sole zampe dell’animale. I domenicani del convento, però, non apprezzano. Secondo loro «niuno perpendicolo di pondo non debi sotto a sé habere aire overamente vacuo, perché essendo intervacuo non è solido né durabile». Come a dire, la mente può anche essere robusta, ma non deve poggiare sul vuoto. D’altronde hanno appena processato Galileo: le sue teorie, pensano i frati, anziché poggiare sulle sacre scritture e sugli studi aristotelici, poggiano su ipotesi matematiche, cioè, a loro avviso, sul vuoto.

Benedetto Croce, il monumento nazionale, poggia su un basamento fatto di solida dottrina. Eppure la sua nomina a ministro va di traverso a molti. In 30 anni di attività ha pubblicato moltissimi articoli di critica letteraria nei quali, in modo più o meno frontale, ha attaccato scrittori, poeti e filosofi contemporanei. Certe volte arrivando a conseguenze estreme. A 28 anni polemizza con il critico letterario Bonaventura Zumbini. A difenderlo ci pensa un allievo di Zumbini, Pasquale Raffaele Troiano, che usa parole di fuoco. Croce si ritiene offeso e lo sfida a duello. Il suo amico Riccardo Carafa, si offre di rappresentarlo nella lite e riesce a evitare le armi. Solo che poi si vanta pubblicamente di avergli risparmiato una sicura umiliazione, visto che Croce non sa usare la spada ed è pure zoppo. Il filosofo si sente doppiamente offeso e allora sfida a duello direttamente Carafa. Prende lezioni di scherma e il 25 aprile 1894 si presenta all’appuntamento in una villa di Portici. Alla quarta messa in guardia riporta una ferita alla guancia sinistra che, secondo i medici, gli impedisce di proseguire il duello e, secondo gli amici, è un regalo di Carafa, che essendo un ex-ufficiale di cavalleria, potrebbe fargli molto più danno.

Nel 1907, in Letteratura della nuova Italia, liquida in un colpo solo Pascoli, D’Annunzio e Fogazzaro. Scrive: «Nel passare da Giosuè Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di nervi». Il 20 maggio 1909 esce su La critica una pesante stroncatura del saggio di Pirandello L’umorismo, a suo dire concettualmente confuso: «i concetti si sformano tra mano quando li prende per porgerli altrui». Pirandello non la prende bene, anche perché a distanza di anni, anche dopo aver ricevuto il Nobel, si vede nuovamente attaccato dal filosofo napoletano, che gli attribuisce «taluni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso, inconcludente filosofare. Né arte schietta, dunque, né filosofia». Lo scrittore siciliano risponde: «Fra tutti i Pirandello dipinti a vario modo che ho visto, il più imbecille di tutti è quello di Benedetto Croce».

Comunque, il 14 giugno 1920 Croce riceve l’invito di recarsi a Roma per «discutere cosa politica». Il giorno dopo è a colloquio con Giolitti e, al termine dell’incontro, è già designato ministro della Pubblica Istruzione. Deve solo prestare giuramento davanti al re. Solo che don Benedetto odia andare dal sarto, non sopporta il rituale delle misure e delle prove, mal tollera gli abiti nuovi che, fra l’altro, considera uno spreco di denaro. Quindi la moglie acquista sempre la stessa stoffa e poi, con un vecchio abito come modello, chiede al sarto di cucirne uno nuovo. Dopodiché, di nascosto, lo sostituisce al vecchio mentre Croce, tutto contento, si vanta con gli amici: «Che stoffa eh, sto vestito! lo tengo da dieci anni e sembra nuovo». Insomma, a differenza di tutti i ministri, non solo giura davanti a Vittorio Emanuele III senza abito da cerimonia, ma il vestito che indossa potrebbe avere 10 anni.

Ora, questa sua propensione al risparmio, associata a una certa severità e al rigore professionale, lo rendono totalmente impopolare agli occhi della burocrazia ministeriale. Si mette in testa di combattere gli sprechi del palazzo, limita il consumo di energia elettrica, cancella gli abbonamenti alle riviste, taglia il ricorso allo straordinario. Sarebbe temerario in tempi normali, figurarsi durante il cosiddetto biennio rosso: 1919 e 1920 sono anni di proteste, rivendicazioni, scioperi a oltranza contro il governo. Il mondo della pubblica istruzione non è da meno, si lotta e si contesta. Croce convince Giolitti a non cedere terreno e alla fine la linea dura sembra vincente. Ma i dipendenti ministeriali non lo sopportano più. Quando lo vedono passare smettono di togliersi il cappello. Poco dopo la maggioranza di Giolitti esce con le ossa rotte dalle elezioni del maggio 1921. Le dimissioni del governo sono inevitabili. Croce abbandona il palazzo della Minerva e i giornali di luglio spiegano bene qual è l’aria che si respira.

6 luglio, Il Paese di Roma: «Ieri a mezzogiorno il ministro dell’istruzione ha lasciato il ministero accompagnato dalle imprecazioni degli impiegati…».

10 luglio, La voce di Napoli: «Si respira. Il ministro croce fu».

15 luglio, I diritti della scuola: «Mai s’era visto a quel posto un uomo così dispotico e retrivo, così povero di ogni senso di umanità e simpatia».

16 luglio, L’Avanguardia magistrale: «Ex Eccellenza! I vostri meriti sono veramente grandi. Non sciupateli. Non tornate mai più alla Minerva».

Così sarà. Uscendo dal palazzo, dove mai più entrerà da ministro, lo sguardo incrocia il monumento di Bernini, l’obelisco della Minerva. E da lì, dalla soglia, si notano alcuni particolari: anzitutto che il ventre dell’elefante poggia su un cubo di pietra, segno che i domenicani sono riusciti a imporre a Bernini l’inserimento di un supporto in corrispondenza dell’obelisco. Poi che l’animale è orientato così che gli ospiti dell’hotel Minerva ammirino la testa dell’elefante, mentre i frati del convento il suo enorme sedere. Di più, Bernini fa scolpire la statua in modo che la coda pieghi verso sinistra, lasciando scoperti i particolari anatomici e rendendo ancor più pesante lo sberleffo a danno dei domenicani.

Croce, che conosce la storia del monumento, nutre un sentimento altrettanto ostile nei confronti del palazzo. Ma la sua carriera politica non è ancora esaurita: sarà ministro nel governo Badoglio, deputato all’assemblea costituente, senatore per il Partito Liberale. L’esperienza alla Minerva, comunque, gli è servita.

Quasi 30 anni dopo è nella sua biblioteca a sfogliare un’edizione numerata – che ha curato personalmente – di Gianbattista Vico. Mentre ne parla con l’editore Ricciardi e con altri amici bussano alla porta, poi una voce chiede timidamente permesso. Senza alzare la testa dal libro don Benedetto risponde:

  • Gigi siediti lì, finisco e sono da te.

L’uomo ubbidisce e va a sedersi zitto zitto in un angolo della stanza. Il filosofo continua a sfogliare il libro e a commentarlo. Poi, quando è soddisfatto, si gira verso l’ospite e gli dice:

  • Gigi vieni, voglio farti conoscere i miei amici.
  • Piacere, si presenta, sono Luigi Einaudi.

Einaudi è il presidente della Repubblica in carica, il secondo della storia repubblicana. Croce avrebbe dovuto essere il primo, ma quando Pietro Nenni gli propone la candidatura, garantendo l’appoggio anche di socialisti e comunisti, lui rifiuta. Sa benissimo, grazie ai mesi trascorsi alla Minerva, che non sarà la politica a sostenere il suo monumento. I ponderosi volumi che ha scritto, i saggi di storia, filosofia, politica, arte, letteratura e poesia, saranno quelli a sostenerlo.

Si sbaglia. Nelle università si studiano poco, fuori dalle università vengono letti pochissimo, nelle librerie si vendono ancor meno. Restano, è ovvio, la mente robusta e la solida sapienza. Ma tant’è, ogni epoca ha i suoi domenicani: niuno perpendicolo deve avere il vuoto sotto a sé, perché il vuoto non lo rende solido né durabile. Una regola sconosciuta a Galileo Galilei e Gian Lorenzo Bernini ma, com’è evidente, tuttora in auge fra gli impiegati ministeriali.

Mauro Orletti

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