Shampoo e bombe all’idrogeno

Una volta vidi una dentiera, ancora provvista di tutti i suoi denti ben curati, e quella stessa estate, tra gli scogli lungo Skanvik, mi imbattei in ben quattro bottiglie di plastica bianca con sopra delle scritte in cirillico. Flaconi di shampoo sovietici, pensai, e siccome eravamo attorno al 1970, quando la guerra fredda era al culmine della sua parabola, c’era da domandarsi che cosa ci facessero laggiù, dall’altra parte del mare, oltre il faro di Kungsgrundet che assomigliava a una molletta giallo bruciato sulla sottile linea dell’orizzonte.

Qualcosa in effetti avevo sentito della capacità produttiva di quella superpotenza industriale, e grazie alle foto di Leonid Breznev pubblicate dai giornali, con la sua fronte bassa e le sue sopracciglia a spazzola da scarpe, quella figura fantastica non era poi così lontana, e nemmeno l’idea che i signori del Politburo, in ottemperanza ai piani quinquennali, avessero fatto produrre qualche chilometro cubo di shampoo scadente: era più o meno questo che facevano i russi, quando facevano qualcosa, costruivano bombe all’idrogeno e si lavavano i capelli.

[Fredrik Sjöberg, Mamma è matta, papà è urbiaco, Iperborea 2020]

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