È ormai divenuto popolare l’aneddoto relativo alla visita, all’inizio degli anni ’60, del compagno Molotov a Bologna. Venuto per osservare con i propri occhi i successi del socialismo all’emiliana – forse convinto dalla bontà del modello, meno dalla sua esportabilità – aveva rivolto a Guido Fanti, futuro sindaco di Bologna, la seguente domanda: «E le armi, dove le nascondete le armi?» I compagni bolognesi entrarono nel panico e, a quanto sembra, gli fecero credere che erano custodite all’interno di un capannone dalle parti di Borgo Panigale. Il capannone conteneva 660 forme di parmigiano ma Molotov, per fortuna, non volle controllare. Se l’era bevuta? Chissà, di certo la formula del socialismo all’Emiliana non dilagò oltre cortina e comunque, poco dopo, lui stesso fu espulso dal partito.
Un fatto poco noto, invece, è che Leone Trozkij venne in Emilia nel 1910 per tenere una serie di letture sulla tattica parlamentare dei socialdemocratici tedeschi presso la scuola di partito appena fondata a Bologna. Lo racconta Lunacharsky nel testo del 1923: “Silhouettes rivoluzionarie”. Trozkij abitò nel capoluogo per un mese e, durante tutto questo tempo, andò in giro per la città e visitò anche Modena e Reggio. Girava con la barba incolta perché aveva dimenticato il rasoio all’Hotel Herrenhof di Vienna. Sicché a Reggio, passando davanti alla coltelleria Adelmo Viappiani, la cui insegna pubblicizzava tosatrici e rasoi di qualità, entrò per comprare uno di quelli esposti in vetrina. All’interno c’erano almeno venti persone in attesa di essere servite, perché la coltelleria Adelmo Viappiani era la migliore di tutta la città. Allora, con il suo forte accento russo, domandò chi era l’ultimo. Una signora lì vicino gli rispose che non era bello chiedere una cosa del genere perché, tanto per cominciare, quella domanda era una palese violazione della privacy, in secondo luogo perché bastava che prendesse il numerino accanto alla porta per sapere quando sarebbe stato il suo turno. E un vecchio, che aveva riconosciuto l’accento di Trozkij, si mise a spiegare agli altri che non c’era da meravigliarsi se in Russia comandava ancora quell’inetto di Nicola II. Se avessero provato a buttarlo giù assaltando il Palazzo d’Inverno avrebbero di sicuro fallito nell’incertezza su chi fosse il primo a dover entrare. Mentre invece, se l’avessero chiesto ai Reggiani, un paio di giorni e i Romanov sarebbero stati liquidati tutti, dal primo all’ultimo. Poi, mentre i presenti annuivano soddisfatti, indicò a Trozkij un coltello sul bancone, di quelli buoni per tirar via il grasso da un gambo di prosciutto, si passò il pollice sul collo e disse «Ét capí l’antéfona?».
E questo episodio turbò tantissimo Trozkij tant’è che poi, alla scuola di partito, cercò di raffreddare i bollenti spiriti degli allievi essendosi convinto che, se un vecchio reggiano era pronto a sgozzare Nicola II, figurarsi la giovane classe lavoratrice alla quale aveva accettato di parlare. E infatti Lunacharsky scrive così: «Cercò di smuovere i nostri allievi dalla loro posizione di estrema sinistra, tentando di guidarli verso un atteggiamento conciliatorio e centrista». Capito? Conciliatorio e centrista.
Qualcosa di simile accadde a Togliatti quando, nel settembre del ’46, arrivò a Reggio Emilia per tenere un discorso al Teatro Municipale, discorso che poi venne ricordato con il titolo “Ceti medi ed Emilia rossa”. Siccome odiava l’automobile, Togliatti si fece accompagnare a piedi dal sindaco comunista, Cesare Campioli, e da Birbone, l’amato mastino napoletano che terrorizzava gli ospiti della casa in cui viveva a Monte Sacro. Però, arrivati all’angolo tra via Giosuè Carducci e via San Giuseppe, il cane si accucciò per defecare proprio di fronte al negozio di Adelmo Viappiani. Non si erano allontanati di molto – lui, Campioli e Birbone – quando un cliente della coltelleria, brandendo un affilatissimo scannino di 15 centimetri, richiamò il Migliore e, indicando la cacca appena sfornata del mastino, gli fece presente che, se non la raccoglieva immediatamente, gliel’avrebbe infilata lui stesso nel taschino del doppiopetto. Togliatti allora si fece passare l’Unità da Campioli e a malincuore, con l’articolo sulla neonata Repubblica Popolare di Bulgaria, raccolse la cacca di Birbone mentre tutt’attorno si era radunata una piccola folla di clienti di Adelmo Viappiani e uno di loro commentava dicendo che niente, non c’era verso, non si sarebbe mai fatta l’Italia socialista e tutto sarebbe finito in merda a meno che loro, i Reggiani, non avessero ripulito il Paese dagli escrementi: dei cani, dei fascisti e delle altre forze della reazione.
“Compagni”, disse poi Togliatti nel suo discorso al Teatro Municipale, «qui da voi c’è l’occasione storica di dimostrare che il socialismo si può fare pacificamente, con un largo fronte democratico, in cui le ragioni del lavoro e quelle del capitale possono collaborare». Capito? Collaborare col capitale.
Come Trozkij, anche Togliatti era rimasto parecchio turbato dall’uomo con lo scannino di 15 centimetri.
Tutto questo per dire che forse, se i compagni della Federazione bolognese avessero portato Molotov a Reggio, davanti alla coltelleria Adelmo Viappiani, anziché a Borgo Panigale, rivoluzioni non se ne sarebbero viste ma, magari, il socialismo all’emiliana avrebbe dilagato oltre cortina. E alle Nazioni Unite avremmo visto Molotov, anziché Chruščëv, sbattere sul banco uno scannino di 15 centimetri anziché una vecchia scarpa deformata, difendendosi dall’accusa di soggiogare i paesi dell’Est attraverso una dominazione imperialista di stampo emiliano.
LETTO IL 1° GIUGNO AL FESTIVAL DI FOTOGRAFIA EUROPEA DI REGGIO EMILIA PER LA PRESENTAZIONE DELL’ALMANACCO QUODLIBET 2018 (RIVOLUZIONI, RIBELLIONI, CAMBIAMENTI, UTOPIE)