È difficile immaginare l’effetto provocato sulle popolazioni del nuovo mondo dai conquistadores o lo stupore degli spagnoli davanti a quegli uomini stranamente vestiti. I primi avran pensato di avere di fronte delle divinità, divinità con il corpo per metà umano, sebbene duro e lucente, per metà animale (le popolazioni del nuovo mondo non avevano mai visto armature e cavalli). I secondi saran stati certi di aver incontrato degli alieni. Sbarcare in Sudamerica, che allora non era Sudamerica perché l’America non era America e quindi non c’era nemmeno il Sudamerica, era come sbarcare con un’astronave su un pianeta sconosciuto. E cosa avran provato gli spagnoli sopravvissuti alla disgraziata spedizione di Magellano e approdati, nel 1521, in Borneo? Di fronte ai Dayak e alle teste recise dei loro nemici saran rimasti stupiti e terrorizzati.
In un libro di Jean Talon, Incontri coi selvaggi, si racconta dei primi contatti avvenuti fra i rappresentanti del cosiddetto mondo civile e quelli del cosiddetto mondo selvaggio. Attimi memorabili in cui tutto può accadere, in cui la meraviglia (o la delusione) per una scoperta travolgono i protagonisti dell’incontro. Talon racconta anche di contatti più recenti, per esempio di un incontro avvenuto negli anni ’80 fra i membri di una tribù di tagliatori di teste e un gruppo di turisti armati di macchine fotografiche. In questo incontro domina lo stupore: stupiti i turisti nel vedere tagliatori di teste in jeans e maglietta, stupiti i tagliatori di teste nel vedere uomini bianchi così interessati alle loro case, al loro cibo, alle loro maschere. Stupore a parte, i nativi abbandonerebbero seduta stante le loro case, il loro cibo, le loro maschere per far cambio con i turisti. Ovviamente i turisti non accetterebbero il cambio. Pur affascinati dal selvaggio e dal primitivo, si accontentano di mettere a fuoco immagini esotiche, in verità molto rassicuranti. Rassicurante è sapere di esser nati dalla parte giusta del mondo. Eppure il viaggio dovrebbe creare inquietudini, sconvolgere i nostri equilibri.
Oggi si viaggia per ritrovare l’equilibrio. Giorgio Manganelli sarebbe inorridito all’idea. Prima di ogni viaggio sentiva l’urgenza di fare testamento, non tanto a causa di pericoli concreti quanto per il rischio di non fare più ritorno. O meglio, per il rischio di tornare con una nuova identità. Ne L’infinita trama di Allah scrive così: «Ho un amico che, tolte le tendenze maniaco depressive, i tic nervosi facciali, le ansie, gli stati confusionali, le nevrosi persecutorie e una mite paranoia, può considerarsi sostanzialmente normale». E, sempre a proposito di questo amico, dice: «Per molti anni egli non ha viaggiato, al punto che la nozione dell’Italia come immagine peninsulare era per lui del tutto favolosa. […] Ma un giorno il destino lo fece viaggiare. Da quel momento il blando demente si trasformò in un essere irrequieto, frastornato, tremulo e affannato».
Credo che l’amico di Manganelli sia Manganelli stesso, cioè lo scrittore convinto che esistano due tipi ideali di viaggio: «il viaggio con l’autobus numero sessanta, dalla Nomentana a piazza San Silvestro, Roma, o il viaggio in jet a Singapore» (L’isola pianeta e altri settentrioni).
Come dargli torto? Una passeggiata a pochi isolati da casa può tramutarsi in un viaggio memorabile. E questo mi fa venire in mente la storia del Principe di Pandolfina, raccontata da Roberto Alajmo nel suo Repertorio dei matti della città di Palermo. L’uomo fa il voto di andare in Terra Santa nel caso in cui la moglie guarisca da una grave malattia. La guarigione avviene e l’uomo deve tener fede al sacro vincolo. Siamo agli inizio del ‘900 e un viaggio in Terra Santa è assai complicato. Allora, dopo aver calcolato la distanza fra Palermo e Gerusalemme, decide di percorrerla tutta – simbolicamente – camminando lungo i viali attorno al suo palazzo. Riesce nell’impresa accompagnato da un servitore, Felicetto, il quale – raggiunta la meta e temendo il viaggio di ritorno – persuade il Principe a rimanere, diciamo così, in Terra Santa.
Il personaggio di Alajmo non si allontana da casa eppure fa incontri memorabili (con gli altri matti della città di Palermo). Evidentemente ha imparato a separarsi dalle abitudini che ci rendono «blandi dementi».
Affinché il nostro occhio sappia cosa guardare bisogna diventare «irrequieti e frastornati». A quel punto, fotografare un tagliatore di teste del Borneo o un vicino di casa, non farà differenza: il risultato sarà in entrambi i casi stupefacente, sebbene destabilizzante. Potrebbe trattarsi di foreste in fiamme o dell’accoppiamento di oranghi, il discorso è il medesimo.
Le foto di Laura Frasca ci dicono esattamente questo: che i Dayak abitano nel nostro quartiere, che gli oranghi hanno una loro intimità domestica, che il lavoro si fa in abiti comodi, che i ragni tessono trame delicatissime mentre le foreste vanno in fiamme. Senza enfasi e senza retorica, senza sentirsi dalla parte giusta del mondo, senza voler tranquillizzare nessuno.
TESTO SCRITTO PER IL VOLUME NEGLECTED ROOTS (ED. INNOVIBE), REPORTAGE FOTOGRAFICO DI LAURA FRASCA SULLA FORESTA DEL BORNEO INDONESIANO