La pioggia nel pineto

Prefazione inedita a La Pioggia nel Pineto di Gabriele D’Annunzio

Se non proprio a risuscitarmi, cosa che umana non sarebbe, almeno a riportarmi momentaneamente in vita ci è riuscito, quel satanasso di un Direttore Editoriale, Editor Dottore Priore Proprietario o come cavolaccio si chiama! L’ha fatto, e ci è riuscito, solo per obbligarmi a scrivere questa maledetta “prefazione”. Data l’eccezionalità dell’evento, dice. Si tratterebbe, dice, di una nuova, elegantissima edizione di quella che, nel minimo spicchio di eternità in cui lui vive, sarebbe considerata – dice – la mia migliore poesia, tanto che persino nelle scuole pubbliche tutte le professoresse, prima o poi, la fanno imparare a memoria ai loro recalcitranti ragazzotti: “La pioggia nel Pineto”.
A parte che non farei distinzione alcuna in quanto al valore della mia opera, tutta immensamente grande, io che ho combattuto mille eroiche battaglie, capeggiato eserciti ribelli, pilotato aerei, io che in gaudio carnale ho posseduto innumerevoli donne e domato moltitudini a mio profitto, io che sono il Vate, l’Immaginifico, il Poeta Soldato, come potrei sopportare un’imposizione del genere?
Quel tal Direttore Editoriale, o come cavolaccio si chiama, mi ha chiuso in uno sgabuzzino semibuio dove un cono di luce illumina soltanto questo misero tavolino davanti al quale me ne sto imbavagliato, impalato, legato a una sedia con cordami dai mille nodi. Libera ho solo la mano destra. Per scrivere.
Pretende che scriva? Ebbene, scriverò! Ma come voglio io. Scriverò, ma solo per sfogarmi contro quel tale che mi fece fremere nella tomba per la stizza, quando venni a sapere come aveva ridotto la mia “Pioggia nel Pineto”!
Non posso negare che altri prima e dopo di lui si siano permessi di gigionare sui quei miei versi sublimi, per esempio quel certo Eugenio che ne ricavò una parodia nello stile delle sue “Sature”. Non che io abbia mai amato la sua opera, di quel Montale. Provo fiero disprezzo per i suoi versucoli presuntuosi. Ma non posso certo prendermela con lui. La parodia è un genere letterario e ognuno può praticarla come meglio crede, lo faceva del resto anche quel buffo di un Petrolini, che, chiamandomi Gastone, mi sfotteva apertamente. Anche quella era parodia, o comunque uno scherzo. Non è questo il punto.
Il punto è che una cosa sono le parodie, gli scherzi, gli sberleffi, ben altra cosa è il plagio.
E quello sciagurato menestrello, lui sì che mi ha plagiato! E a lui non la perdono!
Era più o meno la metà del Novecento, e questo bizzarro saltimbanco è comparso dal nulla, mietendo allori e incassando denari a più non posso, questo plebeo cafone del Sud che a malapena sapeva strimpellare la chitarra e sul palco vociava come un pescivendolo! Lui, un illetterato che sì e no sapeva leggere e scrivere, mi ha derubato, si è impossessato dei miei versi, insomma li ha copiati spacciandoli per suoi! La sua non è stata satira, ma plagio. Solo che, data la sua crassa ignoranza, copiandoli, li ha orribilmente storpiati. Neppure i critici più sopraffini se ne sono accorti; ma io sì!
Procediamo con ordine.
Costui scrisse e portò sul palco una canzonetta che, chiamandola “Piove”, già nel titolo riecheggia la mia poesia. Coincidenza? Non credo, se confrontiamo con attenzione i due testi.
Prima di tutto la canzoncina, come la mia poesia, è rivolta a una donna. Io però mi rivolgevo a Ermione, come tutti sanno, nome ricolmo di risonanze classiche e mitologiche. Lui invece non si degna neppure di darle un nome, alla sua donna, e si rivolge a lei con un volgarissimo “ciao ciao bambina!” (traduzione di quell’orribile “hi baby”, che gli americani avevano appena insegnato agli italiani, dopo averli vinti in guerra). Eppure, a parte queste differenze di stile, la situazione è simile. Sta piovendo e la pioggia avvolge uomini e cose; di conseguenza bagna anche i due amanti. “E piove e piove / sul nostro amor”, dice sinteticamente il cafone, mentre io costruivo su quello stesso concetto, sull’idea della pioggia che cade e bagna ogni cosa, un raffinato ricamo di suoni, una sinfonia di effetti onomatopeici, allitterazioni, rime, assonanze, dove in sostanza il rumore della pioggia si trasformava in arcano linguaggio della natura, linguaggio più autentico e profondo di quello umano. E infatti in tutta la mia poesia ricorre un invito a tacere per meglio ascoltare le “parole più nuove” pronunciate da “gocciole / e foglie lontane”. Insomma in quei miei versi c’è una grandiosa rappresentazione del tema più importante del Simbolismo: la ricerca del linguaggio nascosto della natura, che solo in certe circostanze possiamo percepire, per esempio quando la pioggia avvolge i corpi di due amanti al punto da operare una specie di metamorfosi, trasformando in un tutt’uno elementi umani e vegetali, uomini e natura. Bisogna andare alla ricerca di “parole più nuove”.
E cosa fa il cafone? Sbraita: “Vorrei trovare parole nuove / ma piove e piove sul nostro amor.” Anche lui, palesemente copiandomi, si permette di chiamare in causa le “parole nuove”, ma nel farlo spoglia il concetto di qualsiasi significato profondo.
Un aspetto importante di quella mia poesia, d’altra parte, è il “panismo”, cioè l’umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell’umano. Lui apprende a suo modo la lezione, scopiazza il concetto, ma lo traduce in uno striminzito “mille violini suonati dal vento.” Il vento diventa la mano di un musicista. Ma vogliamo paragonare questo striminzito conato retorico ai miei versi immortali? “E il pino / ha un suono, e il mirto / altro suono, e il ginepro / altro ancóra, stromenti / diversi / sotto innumerevoli dita.”
E ancora, altro intollerabile plagio. La pioggia, cadendo sul viso della donna, somiglia alle lacrime che scendono dai suoi occhi: così è detto nella mia poesia: “Piove su le tue ciglia nere / sì che par tu pianga / ma di piacere”; E lui, banalizzando alla grande: “Cos’è che trema sul tuo visino / è pioggia o pianto / dimmi cos’è.”
E per concludere: lavorai di cesello per costruire certi effetti di risonanza sulla “favola bella” che lega i due amanti, in tal modo proiettando tutta la composizione in una dimensione fiabesca e costruendo agli estremi del mio testo, all’inizio e alla fine, un refrain tutto giocato su una armonica quanto effimera variazione a chiasmo (“che ieri m’illuse che oggi t’illude”, “che ieri t’illuse, che oggi m’illude”). E lui che fa? Ancora una volta mi ruba la parola, pure se usando un sinonimo: “Come una fiaba l’amore passa”, canta a un certo punto, alludendo al risaputo concetto di quanto sia passeggero il trasporto amoroso! Svapora così ogni raffinatezza di suono e di senso; e non solo: il cafonaccio toglie di mezzo quel mio raffinato refrain, relegando “la fiaba” a un accenno passeggero, e lo sostituisce con quell’orribile ritornello, “Ciao ciao bambina”!
Insomma, plagio peggiore non avrei potuto subire. Non solo la canzonetta di quel Midugno (o come cavolaccio si chiama) è una palese scopiazzatura dei miei versi, ma è anche una storpiatura, uno scempio verbale. Un oltraggio che ancora mi brucia e mi percuote!

Gabriele D’Annunzio

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