Prefazione inedita a Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi
C’era una volta, miei cari ragazzi…
– Un imitatio Christi!
– Un rito iniziatico!
– Ohé!
– O che forse una fiaba esoterica?
– Ma che fiabe e fiabe d’Egitto: è un incubo di reinfetazione!
Ohé, animo signori, riposino i deretani! Orbene: che mai vanno poetando, e per giunta di un libriccino che, col dovuto rispetto, è stato da me scribazzato nel solo e umile intento di educare le birbe all’amorevole devozione pei propri cari? Eh no, bischeri fritti!, cristi e feti lasciamoli, di grazia, a cas…
– Se’, “incubo di reinfetazione”!… Ma finiamola…
– La finisca Lei, con le sue uccellerie esoter…
Insomma, signori critici!, mi lascino parlare, e tengano i propri azzuffamenti pel domani, quando e il misero autore e gli interessati lettori, lietamente defilatisi, potranno scampare siffatti sofismi…
E dunque, miei cari, c’era una volta (e sempre ci sarà) un semplice burattino di legno, un monello matricolato che, dotato che fu di du’ gambette e rispettivi piedi, mi scappò di mano come l’aquilone d’aprile al pargolo, combinandomene di crude e di cotte.
Gli è che scrivere una favola, checché se ne pensi, non è punto differente dal metter mano a una seggiola, aggiustare un tavolaccio o, per l’appunto, dirozzare un ciocco di legno secco.
– Poffardina, “il velame de li versi strani”!
– La mise en abyme!
– Ma ci dia un taglio, codeste corbezzolerie parigine!
Animo, signori ghiottoni, animo!… Oh! che brutta malattia l’erudizione strapazzona! che il povero pennaiolo non può più giochiricchiare con le sue fanfaluche a cottimo senza sentirsi alle calcagna la santa ispirazione, il fior dell’intelletto: ma io, com’è vero che non mi chiamo Collodi, codeste avventure sono andato buttandole giù un poco alla diavola, a strippapelle come suol dirsi, e il mio caro Pinocchio, che tante me ne ha fatte e tante ce ne ho rese, l’averei di gusto lasciato a spenzolarsi dalla Quercia grande, nel buio della notte, se i morsi dello stomaco e sopratutto voi, amati lettori miei, non aveste insistito colle vostre vezzose vocine (“signor Lorenzini illustrissimo!”) a concedergli
– Anima grande!
– O dunque lo lasci finire, barbagianni!
una seconda vita, ecco.
Fame, notti di tempesta, e poi truffe e prigioni, mutilazioni, mostri e forche… Ahi quanta ombra in questa innocua favoletta, quanta pena pel nostro vagabondo a diventare un fanciullo come tutti gli altri. Ma più dolori al solito, più giracapi ha dovuto durare il su’ babbo artigiano, che sarei io, abbindolato dalle mie stesse fole, forzato a tener dietro ai voli del mio burattino ribelle: morire e rinascere e ancora morire, e insomma guadagnarsi, come ogni brav’omo che si rispetti, il bicchiere di latte caldo, il crudo diritto a invecchiare in pace, o che so io?
Carlo Collodi