Chiamo un amico che non sento da tempo. È in ospedale. Parliamo, ci diciamo molte cose, ci promettiamo di vederci al più presto. E poi lui mi dice che non mi devo preoccupare, che abbiamo tempo, che lui muore un poco per volta.
Dopo per un po’ mi dimentico di lui, della promessa che ci siamo fatti, di quella frase, del suo morire un poco per volta. Che non so esattamente cosa voglia dire.
Finché mi succede di trascorre un pomeriggio in cui ho l’impressione che tutto diventi comprensibile, perfino lo spazio e il tempo, quasi fossero ridotti a un punto e questo punto fosse la quintessenza dell’essere.
Vivo uno stato di grazia, durante questo pomeriggio, e la vita assume una forma stabile, ogni istante sembra avere una spiegazione e questa spiegazione è ciò che mi sottrae al Caso e mi collega a una legge che non è fisica né ultraterrena e probabilmente non è nemmeno una legge ma una «magica sorpresa».
Il tempo diventa qualcosa di inesteso, non misurabile, lo spazio qualcosa di percepibile perché – finalmente – separato dalla mia coscienza. Mi sono finalmente chiari il motivo per cui l’ora di Proust «non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi» e la ragione per cui il vecchio che procede nella mia direzione, pestando la gamba sinistra, non è solo un vecchio dall’andatura bizzarra ma colui che tiene il tempo (della mia coscienza).
Mi sembra del tutto ovvio, quindi, pescare sul banco di un robivecchi una vecchia copia di “Odi e Inni” di Pascoli e leggere L’aurora boreale e veder «rampollare il flutto d’un’ampia chiarità, cangiante al palpitare del gran Tutto». Quel gran Tutto che percepisco dentro e fuori di me.
Mi sembra del tutto ovvio, ancora, scorgere il volto di Frida Kahlo dietro una vetrina del centro. A volte l’immaginazione gioca brutti scherzi, ma non oggi, non la mia, non quella di Frida Kahlo. La nostra immaginazione non vuole abbandonare la logica né evadere nel surreale. Qui e ora, in questo spazio e in questo tempo, mi lascio conquistare dal volto di Frida Kahlo e da tutto ciò che lei stessa descrive come la «magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio, dove sei sicuro di trovare le camicie». Desidero che quella magica sorpresa, come le camicie, venga finalmente indossata.
E per concludere, mi sembra del tutto ovvio bere del vino in un posto qualunque della memoria e ascoltare della musica in sottofondo, Losing my religion per la precisione, e far caso ai versi in chiusura, that was just a dream, just a dream, just a dream, dream.
Tant’è che al risveglio tutto torna incomprensibile, il tempo riprende a scorrere, lo spazio a distendersi e anch’io, come il mio amico, mi sento morire un poco per volta.
