Voglio a tutti i costi ascoltare dal vivo il khoomei, cioè un canto con cui si enfatizzano gli armonici della voce. Pare che un tempo servisse a mettersi in contatto con gli spiriti della natura. Il che spiegherebbe l’atmosfera un po’ magica creata dall’impasto di voce e morin khuur, il violino a due corde col manico intagliato a forma di testa di cavallo.
Ascolto il khoomei a Ulan Baatar, in una piccola sala da concerto dipinta in rosso, con un tappeto al centro. È buio, sui lati due arpe mongole, yoochin, e null’altro. Dopo qualche minuto entrano gli artisti. Il primo è alto e magro con sgabello in una mano e violino e archetto nell’altra. Il secondo è altrettanto alto ma più imponente. Si posizionano in fondo, vicino al muro. A quella distanza gli abiti che indossano – vestiti tradizionali realizzati con una stoffa azzurra un po’ grossolana – li privano di volume e li incollano alla parete come un’immagine dipinta.
Dopo però arriva il suono struggente e ultraterreno del violino, modulato dal movimento del musicista, qualcosa a metà strada fra lo sforzo minimo del pittore e il gesto plateale dello sciamano. Infine la voce del cantante, molto bassa, vibrata, capace di spegnersi in un gorgoglio e accavallarsi a un suono acuto, come di flauto. L’effetto è potente, a lungo andare ipnotizza. Così mi addormento, solo qualche minuto, non di più. La musica va avanti, ripetitiva. Poi tutto finisce, si accendono le luci. L’intonaco alle pareti è scrostato in più punti, il tappeto è sporco e strappato, le arpe mongole sono custodie vuote. Musicista e cantante emergono dalla parete, fanno un inchino e si dileguano dietro una porta sbilenca.
Fuori dalla sala la piazza di una città alle quattro del mattino e i pascoli infiniti del Khar Usan Tokhoi.