Il “Grande Luogo della Gioia Completa” fino a qualche anno fa era una sorta di baraccone della festa. Quando un capo di stato veniva a Ulan Baatar e chiedeva di visitare un tempio buddista lo portavano lì. Un po’ perché era bello portare un capo di stato nel “Grande Luogo della Gioia Completa” un po’ perché gli altri templi buddisti erano stati rasi al suolo dal regime sovietico. Anche il vicepresidente Americano Henry Wallace è stato portato qui dal primo ministro della Mongolia Čojbalsan. Ma nel 1944, senza monaci, senza preghiere, senza offerte, che luogo era diventato il “Grande Luogo della Gioia Completa”? Un baraccone della festa.
Quando la delegazione russa guidata dal compagno Molotov venne in visita a Bologna, per vedere da vicino il miracolo del socialismo all’emiliana, per studiarlo e apprezzarne i risultati, tutti pensarono fosse sufficiente fare un giro sugli autobus gratuiti del servizio urbano, visitare gli asili pubblici, squadernare il piano regolatore cittadino e decantare la lungimiranza del Piano di Edilizia Economica Popolare. Invece la delegazione russa chiese di vedere il luogo in cui erano custodite le armi che sarebbero servite per la rivoluzione. Infatti, socialismo emiliano a parte, la rivoluzione sarebbe arrivata, prima o poi.
Allora i compagni emiliani portarono la delegazione e chi la guidava, Molotov, davanti a un capannone appena fuori Borgo Panigale e dissero: “Lì, 660 pezzi perfettamente stagionati! Ci siamo capiti…” Nel capannone erano custodite 660 forme di grana padano ma non ci fu bisogno di entrare. I sovietici erano soddisfatti come il vicepresidente Americano davanti a un tempio vuoto, e il desiderio di rivoluzione salvaguardato come l’idea di una divinità che si accontenti di un giro di ruota (della preghiera). Anche la faccia era salva: il volto “umano” del regime sovietico negli anni ’30 e il volto fiero e combattivo di un qualunque militante bolognese del movimento operaio internazionale.
Dunque oggi, alla ricerca di un luogo di gioia, seppur incompleta, sono entrato nell’edificio principale del tempio, il Migjid Janraisig Süm. E qui, di fronte alle centinaia di piccole statue del Buddha della Longevita’, Ayush, allineate lungo le pareti come forme di grana messe a stagionare, sono rimasto ad ascoltare le voci dei 600 monaci tornati a popolare il tempio. E non so, magari sbaglio, ma il fatto che esista un luogo inaccessibile e fuori dalla mia portata, dal quale provengono quelle voci, nel quale dovrebbe avvenire la decima reincarnazione dello jebtzun damba, mi spinge fuori dal monastero, fuori dal Migjid Janraisig Sum, fuori da tutto e vicino, molto vicino a ciò che è lontano, molto lontano.
Ma solido e ostinato come un cristallo di quarzo. Come il sentimento. Di cui è fatta la rivoluzione. Di cui sono fatto io.