Ti deve piacere

L’anno scorso sono stato in Cile, col mio amico. È un posto bellissimo, un viaggio che mi piace sempre di più mentre ci penso. Qualcosa che resta dentro, perché c’era già, dentro. Adesso quando qualcuno mi chiede com’è il Cile e se vale la pena, rispondo vagamente: «è bellissimo, se ti piace». Come per Q. Mi guardano strano quando rispondo così, come se li prendessi per culo, ma meglio essere guardati strano che sentirsi dire che non gli è sembrato poi così eccezionale. Come per Q. Non si sopporta, non si riesce a capire come può una cosa del genere non essere un’esperienza significativa. E allora meglio che non lo leggano, non in mio nome.
E così anche l’ultimo libro di Wu Ming. Se Q non vi è sembrato niente di sconvolgente, non lo leggete. E se lo leggete, non me lo dite che l’avete letto. Parlate d’altro, chiedetemi com’è stato il viaggio in Giappone. Sarò lieto di parlarvi di com’è un posto diverso da quello in cui viviamo o di un romanzo che vi porta lontano e magari vi fa pure riflettere su quello che siamo e sulla vita e l’amore e i paesaggi. Ma la rivoluzione è un’altra cosa.
L’armata dei sonnambuli è un romanzo storico come non se ne scrivono, almeno in Italia. Ci riescono solo loro. E non è che io li ammiro, anzi. Li detesto e non condivido la loro ideologia, il loro modo di considerare la dialettica storica come un moto di oscillazione perpetua di rivolta del bene contro il male.
Eppure in questo caso, rispetto a Q, noto una certa evoluzione, in senso marxiano, se mi si permette il termine. Certo un po’ dipende anche dall’epoca storica diversa, ma rispetto alla descrizione dai toni biblici della rivolta contadina dei poveri contro i ricchi, c’è uno spessore diverso nei sanculotti del Foborgo di Sant’Antonio, un barlume di coscienza proletaria nei ferri da maglia in mano alle donne. Forse anche eccessivo, a volte scolastico, il modo in cui si presentano come “masse operaie urbanizzate”, provenienti dalla campagna, espropriati dal sapere dell’artigiano, ridotti a mani che intrecciano fili per ore e ore seduti in un opificio squallido e vuoto sotto l’occhio del padrone che depreda e opprime. Ancora non individuato come il cattivo, perché il ruolo spetta ancora a nobilardi e preti, il padrone, quello che compra il lavoro del popolo è ancora in qualche modo “uno del popolo”, anche se sfruttatore. Ma i semi ci sono.
Si intrecciano tanti fili, nel romanzo, più ancora che in Q, non solo destini di persone, ma storie di storie nell’unica grande storia della dialettica storica, del grande conflitto che non è ancora, in quella fine di secolo dei lumi, storia di lotta di classe, e forse nemmeno nell’ideologia degli autori, ma comincia. La ruota che gira falciando teste nella ghigliottina comincia a diventare dentata, ingranaggio di fabbrica.
C’è la storia del teatro, che abbandona la commedia dell’arte e mentre piange ancora Goldoni già comincia a mettere in scena la commedia umana. E nel farlo si accorge che è la storia che si mette in scena, mentre i pazzi in manicomio rappresentano in farsa Danton e Marat e nelle strade uno Scaramouche bolognese prende a bastonate i ricchi monopolatori.
C’è la storia della psicologia, dello studio dell’anima «more scientifico demonstrata», sezionata e percorsa di stimoli elettrici come le rane dei seguaci di Galvani, compulsata dall’ipnosi, che gli autori, con scelta condivisibile, non chiamano mai con questo nome, ma piuttosto sonnambulizzazione. Usata a fin di bene, con ingenuità da socialisti utopisti della mente, da Puysegure e D’Amblanc oppure a fin di male, dal genio della reazione, il nuovo Qoelet, il diabolico barone d’Yvers.

Il genio che crea l’esercito senza anima e senza pensiero, sorta di negazione dell’illuminismo fatta carne e sangue, puro atto di unico corpo senza mente, di moltitudine ottusa che pensa con la mente del Capo. Delirio di onnipotenze molto di là da venire, dove riaffiora con tratti demoniaci quella tendenza al manicheismo metastorico che criticavo in Luther Blisset, l’eterno scontro dei poli opposti. Eppure stavolta un altro parallelismo mi affascina, mentre penso alle armate francesi che ricacciano indietro fantocci armati della reazione europea, lavoratori senza coscienza morti sui prati di un paese straniero per volontà di re imbelli. Così diversi dal marito di cui si gloria di essere vedova la cittadina Noziere, che non ha buttato la vita per una corona ma per difendere la nuova identità del suo popolo. Il new model army, quello della rivoluzione americana, quello dei liberi cittadini che pensano mentre combattono e combattono perché pensano e perciò pensano meglio e combattono meglio. E vincono.
Di questo nuovo modello di combattenti l’armata dei sonnambuli diventa un tetro doppio, un’invenzione e una metafora, un sogno reazionario.
E infine i muschiatini, la reazione vera, quella squallida e piccola piccola che pensa con la sua testa piccola piccola. Quella dei giovani rampolli di famiglie benestanti, non nobili né ricchissimi, nemmeno ancora sfruttatori, solo borghesi, mercanti, avvocati, dottori. Gente tarata dall’aspirazione alla nobiltà e che nobile non sarà mai, ma non riesce nemmeno a pensarsi dalla parte dei sanculotti, al punto da rifiutare di pronunciare la Erre per storpiare anche il nome della Rivoluzione. Gente che non ha da rimpiangere il vecchio mondo e non vuole quello nuovo. Giovani che nelle giornate gloriose in cui il popolo francese faceva tuonare il cannone della storia, per dirla coi toni epici che piacciono agli Autori, restavano a tracannare fondi di bicchieri di vino finto, prendendo a bastonate gli accattoni.
Come quei giovani che negli anni ’70 pensavano al calcio e fischiavano alle donne e sognavano le Ferrari e disprezzavano dai tavolini dei bar le manifestazioni unitarie di operai e studenti, in cui marciavano anche gli Autori.
Quella società di magnaccioni, infingardi e un po’ effeminati, che poi sono diventati i padroni e i servi del giorno dopo, ributtando nell’angolo la rivoluzione. E che agli Autori fanno più schifo che paura, tanto da spingerli ad un anacronismo inconscio dai toni grotteschi. Perché si sentono un po’ così, gli Autori, sanculotti traditi da vermi nati dalla putrefazione della nobiltà che contamina il corpo del popolo, quello che parla un dialetto inventato ma genuino, il dialetto di tutti i popoli del mondo, quelli che hanno dalla loro la ragione che la storia gli nega da sempre.
Non è vero che è andata così, ma agli autori piace pensarlo e farlo pensare. Piace pensare che se avessero vinto avrebbero cambiato il mondo e che prima o poi il loro momento verrà, come diceva un’eroina di Ken Loach. Senza rendersi conto che il momento è venuto e poi è venuto il giorno dopo quel momento e intanto il mondo era cambiato davvero.
Però la rivoluzione è un’altra cosa. Ti deve piacere.

Finito di scrivere il 19 Termidoro dell’anno CCXXII.

Mario Mastrocecco

[Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi 2014]

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