Il conturbino è un bambino alto tre spanne che non può muoversi e percepisce l’ambiente in maniera confusa. Ad un certo punto del suo sviluppo le estremità gli fioriscono in protesi mobili che prendono la forma di una bicicletta.
Prima il conturbino stava fermo nel luogo dove l’uovo da cui era nato era stato deposto, aveva messo radici e si nutriva di sassi. Se uno passava e gli parlava, per lui era come ascoltare uno sciacquìo d’acqua, lo guardava come si guarda un cespuglio, senza neanche capire che non capiva quello che il passante gli diceva. Oppure se il conturbino vedeva una pigna cadere, la vedeva cioè prima sull’albero, e poi la vedeva per terra, non riusciva a legare insieme le due cose.
Però, dal momento in cui le radici gli si annodano in maniera inedita e si intrecciano alle sue dita in grumi assurdi e filamentosi, il conturbino scopre un nuovo modo di esistere. Su imitazione dell’acqua che va dall’alto verso il basso, il conturbino comincia a muoversi come una pioggia orizzontale, pedala su ruote vegetali e scopre l’albero dietro all’albero dietro all’albero, poi il rigagnolo grigio, la campagna, i fili del telegrafo che lo guidano come all’amo di palo in palo.
Se incontrasse adesso un passante le sue parole avrebbero ora un altro ritmo, un altro sapore: la successione delle sillabe come pali del telegrafo, come l’albero e la cravatta al collo del passante, il passero che sfreccia, i sassi della strada (mangiarli?), il vento, i pensieri, ecco: nascono nel vento i pensieri, in questa prima corsa del conturbino, che si svezza dal terriccio e si getta per le vie.
[Jacopo Narros]
[Testo scritto per Arsenale +]
Il distacco dalle radici.
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