Si sarebbe tentati di dire che “La Scellerata” di Gianfranco Mammi assomiglia molto a una tragedia greca dove muoiono tutti e alla fine non ci resta più nessuno. La definizione è di Nietzsche, non proprio il filosofo, diciamo l’ombra del filosofo. Che poi l’ombra di Nietzsche è solo una delle ombre che si aggirano nel romanzo e che, probabilmente, sono proiezioni che fuoriescono dalla psiche del protagonista. Ce ne sono un gran numero: ombre di uomini e animali. Per esempio l’ombra di un gatto. Quello che muore proprio in apertura. Il gatto muore e parte un corteo funebre alle 4 del mattino in viale Gramsci, a Modena. Il cadavere viene infilato in una sportina tipo coop e dopo sepolto vicino al garage del padrone che, sia detto, è vivo ma è anche lui l’ombra di se stesso.
È diventato così da quando è stato lasciato dalla sua donna, la Scellerata appunto, che è scappata con un altro. Da quel momento, cioè dalla fine della storia con la Scellereta e dalla morte del gatto, entra in una dimensione che assomiglia a un quadro di Bosch frullato con un quadro di Bruegel. Anche questa definizione l’ho presa in prestito dalle pagine del libro.
Ma chi è questa Scellerata che, in un certo senso, è anche il motore del romanzo? È una donna, ovviamente, ma non come le donne di cui sono pieni i romanzi, donne per le quali vale la pena spianare le montagne o, all’inverso – e qui dipende dalla natura dell’uomo – per le quali vale la pena gettarsi da una scogliera. La Scellerata è una donna per la quale, forse, vale la pena fare la tessera Arci pur sapendo che non ci saranno occasioni per utilizzarla. La Scellerata è una donna che, a parte fuggire con un altro uomo – che sarebbe anche una cosa accettabile – ammira Fassino e Veltroni.
In un certo senso, quindi, la Scellerata ricorda la Fosca di Tarchetti. Cioè un personaggio femminile negletto, del quale sembra impossibile innamorarsi. Fosca è brutta ma, a parte questo, è malata. Cioè da lei spira un’aria malsana, di corruzione fisica e morale. Eppure il protagonista del romanzo di Tarchetti non riesce a liberarsi dal desiderio di averla. È addirittura un’ossessione. Tanto che la malattia di Fosca lo contagerà portandolo alla morte. «Una cosa sovra tutto contribuiva ad accrescere il mio dolore – dice così il protagonista del romanzo di Tarchetti – il pensiero fisso, continuo, orrendo che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba». Fra l’altro lo stesso Tarchetti morirà prima di aver completato il romanzo.
E c’è anche un’altra cosa che va detta su Fosca: ha un doppio, Clara. Clara è fresca, bella, giovane e in salute. Si tratta quindi di un doppio inconciliabile.
Non sappiamo se la Scellerata sia bella o brutta, Mammi non lo dice. Però anche lei vorrebbe portare il suo ex amante alla tomba. E anche la Scellerata ha un suo doppio, per quanto equivoca possa essere questa circostanza. Si potrebbe trattare, infatti, della sua versione – forse quella più autentica – da morta.
In verità tutte le figure femminili del romanzo hanno un doppio, nel senso che tutte fingono di essere quello che non sono: Gaspara Stampa finge di essere Madame de Pompadour, Madame de Pompadour finge di essere Kiki de Montparnasse.
Oltrettutto le donne di questo libro hanno una caratteristica comune: sono morte ma non lo sembrano affatto. Nel senso che sono più vive che mai. Tramano, agiscono, curano e ingannano. E ciascuna col suo carattere che, a ben vedere, è del tutto coerente con la personalità che avevano quando ancora appartenevano al mondo dei vivi.
Discorso diverso per gli uomini. Il protagonista, per cominciare, sembra l’ombra di se stesso. E questo lo abbiamo già detto. A parte saltuari rapporti con persone in carne ed ossa, tutte un po’ sghembe comunque, stringe amicizia con uomini del passato, morti e sepolti. Di cui si conserva un alone riconoscibile ma un po’ sbiadito.
Per esempio Gramsci, tipo bonario e un po’ bacchettone, contrario ai rapporti occasionali, ligio al dovere, astemio. Per esempio Tolstoj, precipitato nell’insicurezza dello scrittore alle prime armi dalle obiezioni di un certo Gottardi, novello stilita modenese. Per esempio Dylan Thomas, fanfarone, senza particolari qualità, capace di reggere litri di alcol.
Ecco, nel libro di Mammi si beve tantissimo. Tutte le ombre che vi si aggirano bevono come spugne. Per esempio William Blake, il più delle volte sbronzo e per questo allegro e vivace, sempre pronto a fare scherzi idioti o raccontare storielle sconce. Per esempio Nostradamus, poco incline a fare profezie ma ben disposto a mandar giù grappe. Per esempio Paul Klee, pignolo e abbastanza conservatore, amante dei distillati d’uva e denigratore degli artisti che inseguono le mode. Per nulla soddisfatto dalle installazioni contemporanee, ma molto interessato alla corrente artistica dello sghembismo.
Parlare dello sghembismo, si potrebbe dire, è come parlare di questo romanzo. Non tanto perché per dipingere un quadro sghembista occorre procurarsi un cane e dopo dipingere con il pisello di quel cane, quanto per l’atteggiamento del pittore – o scrittore, a seconda dei casi – sghembista. Per questo genere di artista il successo equivale al più completo degli insuccessi. Infatti lo scrittore sghembista non si piegherà alle regole della comunicazione e del mercato e non si preoccuperà di diffondere la propria opera. Sarà umile e moderato nelle ambizioni senza cadere nell’ipocrisia della falsa modestia, espediente che alcuni artisti, fra i più astuti, hanno messo in pratica.
In questa prospettiva “La scellerata” è uno straordinario romanzo d’amore, che rompe tutte le regole del romanzo d’amore, che sovverte il concetto stesso di amore, tanto più vivo quanto più ingannato e lasciato alla deriva, nutrito di equivoci e raggiri, scambi di persona e alcoliche improvvisazioni. Un mondo fantastico ricostruito in una botte di vino Ortrugo, un mondo nel quale, con la pazienza del modellista, Mammi ricompone le folli scorrierie del romanzo in un epilogo memorabile.
Mauro Orletti
[Gianfranco Mammi, La Scellerata, Aracne 2014]