Questo pezzo non avrei dovuto scriverlo io, avrebbe dovuto scriverlo un’altra persona. Magari l’ha anche fatto. Allora potrebbe chiedermi: perché l’hai scritto tu? Potrei rispondere: avresti dovuto scriverlo tu ma non l’hai fatto, allora l’ho scritto io. L’altra persona potrebbe farmi notare: l’ho iniziato ma non è ancora finito.
Ecco il guaio di attraversare certi momenti, nella vita, momenti che sembrano una voragine. Torni a casa, ti siedi davanti al computer, scrivi tutto d’un fiato un pezzo che avrebbe dovuto scrivere un’altra persona.
Quando dico tutto d’un fiato, ovviamente, mi sbilancio in una previsione. Non posso sapere che questo pezzo verrà fuori tutto d’un fiato. A voler essere pignoli non l’ho nemmeno iniziato. Sono fermo alle premesse, alle divagazione. La persona che avrebbe dovuto scrivere l’articolo sarebbe andata dritta al dunque. Niente premesse e niente divagazioni.
Però le premesse, in certi momenti, sono fondamentali: aiutano ad arrivare alla fine. Niente premesse, niente fine. Lo so perché sono uno del mestiere. Invece la persona che avrebbe dovuto scrivere l’articolo ha un lavoro, e questo lavoro non ha nulla a che fare col mestiere dello scrivere.
Dico mestiere nel senso più umile della parola. Che richiama direttamente il mĭnĭstĕrium e l’attività del minister, ossia, in una traduzione fedele, del servitore. Sono uno del mestiere nel senso che attraversando certi momenti, nella vita, momenti che sembrano una voragine, non posso fare altro che mettermi al loro servizio. Per farlo scrivo, anche pezzi che avrebbe dovuto scrivere un’altra persona. Poi ci metto le premesse, e divago, ma arrivo anch’io al nocciolo della questione.
Anzi l’ho già fatto, perché questo è un pezzo in cui si parla di lavori e di mestieri. E anche d’altro.
Per esempio di Chuquicamata, in Cile, e dell’enorme miniera di rame a cielo aperto che si trova nella regione dell’Atacama. Un’immensa voragine lunga 4,5 chilmetri, larga 2,5 e profonda più di mille metri. Vista da google earth appare così:

In basso a sinistra la città. In alto la miniera. Dove oggi lavorano quasi 15mila persone. Ecco, quando penso all’essenza del Cile penso al rame. Quando penso al lavoratore cileno penso al minatore di Chuquicamata e alla prima cosa che ho visto visitando la miniera. Non la voragine, ma le montagne. Montagne bellissime dalle forme regolari. Montagne commoventi, montagne create dall’uomo attraverso gli scarti della lavorazione del rame.
Nel suo ultimo discorso dal palazzo della Moneda il presidente Allende si rivolge ai lavoratori. Lo fa più di una volta. «Trabajadores de mi Patria», dice Allende. Lavoratori della mia patria. Lavoratori.
Durante il governo di Unidad Popular l’industria del rame, prima controllata da due aziende statunitensi, la Kennecott e l’Anaconda, viene nazionalizzata. Non è facile capire cosa significhi questo per i cileni. La cosa migliore è ascoltare “Nuestro cobre”, dei Quilapayun. Nella canzone il “cobre”, cioè il rame, è la carne della pampa, la linfa del popolo, la libertà che il lavoratore stringe nel proprio pugno. La libertà che nessuno potrà negare, neppure con i carri armati. «Para siempre el cobre está en las manos de los trabajadores». Finisce così la canzone dei Quilapayun.
Dopo però Allende viene ucciso, Pinochet prende il potere, il capitale Usa torna nelle casse dello stato, con quel capitale vengono pagate le squadre della morte che (letteralmente) spezzano le mani ai lavoratori e ai cantanti cileni.
Ricordate Victor Hara?
Ora io, per fortuna, non ho mai vissuto in una dittatura. Nessun poliziotto, grazie al cielo, mi ha spezzato le mani. Però ci sono certi momenti, nella vita, che mi guardo intorno e non vedo niente. E non dico le grandi montagna di Chuquicamata, ma neppure una collinetta o un dosso. Lavoro ma senza produrre, non lascio tracce, neppure scarti. Una perfetta inutilità.
Invece Chuquicamata è lì, assieme alle montagne di scarti, alla carne della pampa, ai minatori cileni. Anche il grande capitale è lì, assieme al sindacato. Un sindacato che nessun presidente del consiglio cerca di delegittimare. Quindi la miniera produce profitto ma anche lavoro, e salario. E contraddizioni, naturalmente.
A qualche chilometro da Chuquicamata c’è un minuscolo villaggio dal nome singolare, Chiu Chiu. Qui tutto è ridotto: il numero degli abitanti, le dimensioni delle case, la larghezza delle strade, le possibilità di bere una birra. Finisco in un piccolo laboratorio tessile dove alcune donne producono maglie, coperte, cappelli. I pochi prodotti in vendita sono tutti firmati. Per quelle donne, evidentemente, ogni singolo pezzo, anche un semplice fazzoletto di stoffa, è motivo di orgoglio. E non lo so che senso abbia tutto questo, che senso abbia un piccolo laboratorio in uno sperduto villaggio del deserto, che senso abbia firmare un fazzoletto di stoffa. Magari, senza l’enorme miniera di rame, non esisterebbe Chiu Chiu, e nemmeno il piccolo laboratorio, tanto meno il fazzoletto di stoffa. Però, dal mio punto vista, senza il laboratorio sarebbe difficile dare un senso alla miniera. Ecco, diciamo che maglie, coperte, cappelli e, naturalmente, il fazzoletto di stoffa firmato, riempiono la voragine, le danno un senso.
E adesso, che ho finito questo pezzo, che avrebbe dovuto scrivere un’altra persona e invece l’ho scritto io perché, come dicevo, sono uno del mestiere, adesso, dopo le premesse, dopo aver parlato di lavoro e di Chuquicamata, sono stanco e un po’ confuso. Ci sono certi momenti, nella vita, momenti che sono una voragine. Dovrei farmi coraggio. Dovrei dirmi che senza un lavoro questi momenti non ci sarebbero. Che senza un lavoro non ci sarebbero i miei pezzi. Che i miei pezzi danno un senso al mio lavoro. Non ci riesco. Se questi sono i fazzoletti, se questa è la voragine, allora, ditemi, dove sono le montagne?
Ma che hai fatto?Lo dovevo scrivere io! E poi ti avevo detto marxista, un pezzo marxista ci voleva! un pezzo serio, che scoprisse i fili rossi, i legami tra il grande capitale e le matite spezzate e noi che accendiamo la luce. Un pezzo lucido, didascalico, un pezzo da Alberto Angela comunista. Ci voleva un titolo a effetto ma non tanto, un titolo ironico ma senza esagerare e poi giù con dati e statistiche, fino allo sfinimento per poi far risaltare all’improvviso, di colpo, lucida la verità nuda, pericolosa, come fili di rame scoperti. Ecco un pezzo così, l’avevamo pensato così, in quel buco di culo di mondo. Ora cosa penseranno di noi i minatori con il caschetto giallo e le donne mapuce curve sui telai vicine alle finestre e i turisti tedeschi che fanno l’autostop neipostidoveèstatoancheCheGuevara??? E non hai nemmeno citato la chiesa più antica del Cile. Te l’avevo pure detto, te lo!
… sempre il solito… te ne approfitti che io non esisto..
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