Sciopero

A vagheggiare non ci vuole molto. A Caserta poi, dove tre quarti della popolazione più o meno “giovanile”, figlia di una borghesia “alta” e non ancora devastata dalla crisi, si autoproclama artista in ogni settore dell’umana creatività, è decisamente facile. Dammi un casertano medio tra i 20 e i 50 e in un caso su cinque avrai un attore, un musicista, un fotografo, un autore teatrale, uno scrittore, un “organizzatore di eventi”. Gli altri quattro gestiscono locali che aprono e chiudono con l’alternarsi delle stagioni. Tanto poi a pagare ci pensa sempre il paparino. Marcello Capozzi è fatto di un’altra pasta e paparini che pagano non ne ha. Non vagheggia. Marcello Capozzi da qualche anno (o da sempre, a ben guardare) insegue un sogno. E per sognare, amore, non basta soltanto dormire. Devi averne un tremendo bisogno. Perché il bisogno è il padre di ogni sogno, griderebbero in un microfono i Made Dopo. Marcello Capozzi il suo sogno lo ha cominciato a braccare. Con costanza, abnegazione e sangue freddo gli ha dato la caccia, fiutandone gli spostamenti, e mettendolo infine spalle al muro. Nonostante tutto. Nonostante il venir meno di compagni di viaggio, nonostante l’apparente impossibilità di trovare la quadra tra il lavoro (che non c’è o, se c’è, si dimena tra i meandri della selva selvaggia dei “tirocini o stage con rimorso spese, contratti a rigetto e a.che.pro.“), lo studio e l’urgenza espressiva. Dopo anni fatti di songwriting intensivo tra le mura domestiche, live strappati con le unghie e con i denti in lungo e in largo in provincia e un EP autoprodotto, finalmente in questi giorni è in uscita, per la Seahorse Recordings, SCIOPERO. Il titolo non tragga in errore: qui non si dà voce a facili proclami social-demagogici che hanno alimentato per vent’anni un intero filone di musica alternativa campana, tra posse e centri sociali. Qui interno ed esterno, dimensione privata e devastazione sociale/ambientale/antropologica della nostra provincia/regione/nazione/mondo si contrappuntano come due specchi messi uno di fronte all’altro, a sfidarsi e a sbeffeggiarsi all’infinito. Ed è così che dall’intimismo in apertura de “Il vetro e l’intero” (il tempo che passa, l’arte e la musica come sostanza vetrosa, malleabile prima, dura e al contempo fragile poi, per resistere ai colpi bassi della vita) e di “1984” (col suo trillo di chitarre suadenti ed elegantemente soniche) si piomba ben presto nell’incubo ecologico e civile di “Canto Campano” e “Ettari di Eternit”: l’incedere cupo e senza speranza di una terra premuta “sotto il peso di uno Stato che interviene con deroghe ed eccezioni”. Qualcuno direbbe che quando le istituzioni sono le prime a rinunciare alla propria legalità, è la fine di tutto: del diritto, del diritto alla vita, della vita del diritto. Volendo continuare con questa disamina chirurgica (ma si badi, anche limitante) nel separare tra il privato e il pubblico il contenuto del disco, “il Testimone” e “Scaldare il freddo” parlano nient’altro che di amore, declinato in tutte le sue varianti: quello sentimentale, quello perduto e ritrovato, quello familiare, quello per una madre, per un’amante o per la donna della propria vita, o di un’altra vita, una vita possibile, una vita ancora da cominciare. La titletrack costituisce sicuramente l’episodio meno malinconico dell’album, col suo tiro energico e i suoi inserti anglofoni a rinfrescare un brano già esaltante al primo ascolto. Va detto che Marcello Capozzi, che scriva dei mali della sua terra, del tempo strappato a mediocri datori di lavoro o del suo quotidiano passato e presente, non si arrende mai ad un linguaggio scontato. I contenuti vanno sempre decrittati, la chiave rimane il linguaggio poetico. La sua tendenza a trasfigurare il proprio vissuto in slittamenti semantici arditi trova il suo culmine in “Solstizio d’inverno”, dove anche la dimensione strumentale trova sfogo in una lunga suite di schitarrate ad ampio respiro.
In questo disco non si sciopera, o quantomeno non solo, contro l’ingiustizia del mondo del lavoro. Si sciopera contro l’accanimento con cui spesso la vita cerca di sfiancarci, rigorosamente con colpi non regolamentari e sotto cintola. Noi abbiamo il diritto di aprire parentesi all’interno del dolore, di costruirci fughe. Anche con la musica, anche con le parole.

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