Un paio di giorni fa ho letto un articolo di giornale che diceva che nel corso degli ultimi mesi, in Cina, e più precisamente nella regione dello Henan, e ancor più precisamente a Zhoukou, sono state rimosse due milioni di tombe. Motivo: aumentare la terra da destinare all’agricoltura. Sarebbe perfino nato un movimento per la distruzione dei cimiteri. Il governo cinese, dal canto suo, spinge per la cremazione. Nanhai, nella regione del Guangdong, vanterebbe uno glorioso primato: il 100% dei suoi abitanti sceglie la cremazione.
Intanto, pensavo, è proprio bello che un’intera città scelga di farsi cremare per via che bisogna aumetare la superificie coltivata. Niente fisime religiose, niente dubbi sull’eventuale resurrezione dei corpi, niente. Solo grano. E però dopo ho letto alcuni commenti alla faccenda delle tombe rimosse e fra questi ce n’era uno che accusava l’articolo in questione di falsità perché, sosteneva, in Cina non esistono i cimiteri. In Cina ci sono dei cumuli di terra e sotto i cumuli di terra ci sono seppelliti dei morti, però questi morti vengono seppelliti un po’ a casaccio, sicché i cumuli di terra sono come alberi in un campo di grano.
Allora, mentre pensavo alle tombe, ai campi di grano e agli alberi, m’è venuta in mente la scena di un film che inizia così: c’è un uomo che cammina ai margini di una città in costruzione, in una zona appena disboscata. Poi c’è un altro uomo che guida un carro, lo vede, si ferma, gli chiede cosa stia cercando. E lui: “una tomba”. E l’altro: “Ma qui ancora non ha avuto il tempo di morire nessuno! Non abbiamo nemmeno un cimitero”.
Il titolo del film è Dersu Uzala e la scena è ambientata ai confini fra Cina e Russia, dove scorre il fiume Ussuri. Adesso mi viene anche in mente che questo film è anche un film sulla morte, e sulla vita, e sul confine fra la vita e la morte, anzi, più in generale sul concetto di confine, di limite. Fra l’altro Kurosawa lo girò dopo essere stato fermo 5 anni. E dopo un tentato suicidio che lo lasciò proprio lì, fra la vita e la morte. Poi, durante la convalescenza, gli venne offerta la possibilità di girare un film e lui scelse di raccontare le spedizioni in Siberia del capitano Arseniev ed il suo incontro con il cacciatore mongolo Dersu Uzala.
Dal punto di vista temporale la storia si svolge nei primi del Novecento, quando la parabola zarista è ormai al termine.
E insomma, nel mezzo della Taiga sconfinata – quella che Kurosawa descrive magnificamente dimenticando i primi piani e ricorrendo quasi esclusivamente a piani lunghi o medi – Dersu incontra Arseniev, la cultura antica degli Hezhen incontra la modernità. Capirsi è una faccenda complicata: il mondo del cacciatore è, appunto, sconfinato, nel senso che non concepisce limite, tanto meno le mire espansionistiche della civiltà urbana. In un mondo così, esteso all’infinito, in cui l’uomo scompare come una tomba piantata a casaccio in un campo di grano, in un mondo in cui l’unico suono che si distingue è la voce surreale della foresta, in un mondo che Kurosawa descrive lasciando che la natura entri in ogni inquadratura, invadendo lo schermo e avvolgendo l’occhio dello spettatore, in un mondo così, Dersu non può che umanizzare ogni elemento della Taiga, ogni animale, pianta, roccia e anche il sole.
Eppure è proprio questo mondo che il capitano Arseniev, col suo drappello di soldati, intende esplorare. Perché rappresenta la Russia, ossia la civiltà, che in quanto tale sa di poter arrivare in ogni angolo della terra, per quanto remoto, sa di poterlo percorrere tutto, riportare su una mappa e, in definitiva, tracciarne i confini, i limiti.
Il limite affiora come menomazione linguistica. I Russi non capiscono per quale motivo Dersu parla con il fuoco, si rivolge alla pioggia, si lamenta con una tigre che continua a seguirli. Dersu non capisce per quale motivo nella città di Chabarovsk ci sono tanti divieti, il il divieto di pulire il fucile sparando in aria, il divieto di abbattere alberi per fare legna, il divieto di accendere fuochi, il divieto di costruire capanne.
Ed è proprio lì, su quella linea sottile in cui ogni cosa può perdere completamente senso o prenderne uno del tutto nuovo, che avviene l’incontro fra i due mondi, è proprio lì che nasce l’amicizia fra il capitano Arseniev e Dersu, l’indigeno cacciatore, l’antieroe che entra in scena camminando un po’ curvo, e gridando, “Non spara! io sono omo”.
C’è una scena bellissima che descrive perfettamente questa amicizia. Dersu e Arseniev decidono di esplorare da soli un grande lago ghiacciato. Kurosawa li segue attraverso panoramiche che si susseguono lentamente, sottolineando la dilatazione del tempo e, nello stesso tempo, lasciando crescere la sensazione di un’imminente minaccia. Quando infatti si leva una tempesta si trovano nel mezzo del lago incapaci di orientarsi, condannati ad una sicura morte per assideramento. A questo punto il quadro cambia completamente. La luce è quella angosciente del crepuscolo, quando il sole è al limite dell’orizzonte, un attimo prima di sparire. Anche il ritmo della narrazione aumenta, il tempo si contrae, lo sforzo dei due uomini è parossistico. Alla fine riescono a sopravvivere grazie al riparo che Dersu costruisce con le canne secche. Arseniev lo abbraccia e lo ringrazia e lui gli dice: “Insieme si va, insieme si lavora, non serve grazie”.
L’ultima parte del film è dedicata alla menomazione fisica di Dersu. Il quale, per difendere l’amico, spara ad una tigre, “Amba”, il demone della taiga. Da quel momento comincia la sua decadenza, diventa miope e non riesce più a cacciare. Così il capitano decide di regalargli un fucile moderno, con un mirino talmente potente da aiutare perfino i suoi deboli occhi.
Qualche tempo dopo, Arseniev riceve un telegramma che lo informa del ritrovamento del corpo di un uomo che aveva con sé il suo biglietto da visita. Arseniev, identificato il corpo, dice al poliziotto presente il suo nome e la sua professione: “Dersu Uzala, cacciatore”. E quello gli fa notare che non c’è nessun fucile da caccia vicino al corpo.
Ecco, lì, in quel luogo al confine fra Cina e Russia, dove scorre il fiume Ussuri, Dersu ha avuto il tempo di morire per mano di un ladro che lo ha poi derubato dell’arma. E lì viene sepolto, sotto un cumulo di terra, come un albero in un campo di grano. E dopo, il cumulo viene rimosso, e anche l’albero, per far posto alla città. E penso sia bellissimo che del vecchio Dersu non resti nemmeno una tomba, in un punto preciso e delimitato, ma solo un’idea vaga, la necessità di far spazio a qualcos’altro.