Né maestri né discepoli

“I mattoidi italiani” di Paolo Albani (ed. Quodlibet) è un libro che fa nascere molto interrogativi. A cominciare dalla definizione di mattoide. Si potrebbe partire dai fous littéraires di Queneau e allora il mattoide sarà l’ideatore di dottrine che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto a quelle comunemente accettate dalla società. Si dimostrerà del tutto indifferente alle teorie preesistenti e non si sceglierà alcun maestro. Nonostante ciò riuscirà ad articolare in modo solido le proprie idee. E questo mi sembra un aspetto molto importante, nel senso che – se anche l’ispirazione che alle volte lo rapisce dipende da fattori casuali e non controllabili – il frutto di quell’ispirazione avrà nonostante tutto una sua stabilità.
Nel saggio di Lombroso “Genio e follia”, pubblicato da Hoepli nel 1877, il genio, quello un po’ alientato, è invece soggetto all’influsso dei più svariati elementi, e fra questi anche il clima. Grazie a una serie di indagini minuziose, Lombroso è convinto di poter dimostrare, con sicurezza matematica, che la psiche degli alienati si modifica in modo costante a causa di influenze barometriche e termometriche. Ne deriva una bizzarra geografia del genio italico.
Tutti i paesi di rasa pianura – scrive Lombroso – il Belgio, l’Olanda, o di troppo elevate montagne, come la Svizzera e la Savoia, difettano di uomini grandi, ma più ancora poi ne scarseggiano i paesi paludosi e maremmani.
Urbino, Pesaro, Forlì, Como, Parma, hanno dato uomini di genio di maggior numero e fama che non Pisa, Padova e Pavia, le tre prime e più antiche città universitarie d’Italia; e basti citare Raffaello, Bramante, Rossini, Morgagni, Spallanzani, Muratori, Falloppio, Volta, Plinio.
Ma per venire ad esempi un po’ più dettagliati, noi vediamo Firenze, la città mite di temperatura, ma colligiana per eccellenza, aver fornito all’Italia la più splendida coorte de’ suoi grandi, e basti citare [sic] Dante, Giotto, Machiavelli, Lulli, Leonardo, Brunellesco, Guicciardini, Cellini, Beato Angelico, Andrea del Sarto, Nicolini, Capponi.
Invece Pisa, che è in condizioni scientifiche per lo meno sì favorevoli come Firenze, essendo sede di una fiorente università, non offerse (eccezione fatta di qualche guerriero e politico e non in sì gran numero e vaglia come a Firenze, e prova ne sia la sua caduta malgrado i potenti alleati), Pisa dico, non offerse di uomini grandi che Nicola Pisano, Giunta e quel Galileo che ben nacque a Pisa, ma da parenti fiorentini.

“Genio e follia”, in effetti, è un saggio molto interessante dal quale Lombroso, un po’ capovolgendo il comune giudizio che si ha di lui, emerge come intellettuale attento e originale, conoscitore – in modo per nulla superficiale – dell’opera di poeti, scrittori, filosofi, artisti.
Ecco, Lombroso colloca i mattoidi sul confine tra genio e follia, dove il genio è identificato con l’irresistibilità dell’ispirazione, e la follia con i sintomi tipici dello stato paranoide, con l’amnesia e in certi casi con l’epilessia. Da questa strana combinazione di fattori nascerebbe il comportamento del mattoide, che conduce sì una vita normale, ma – dice Lombroso – un po’ castigata, una vita la cui sobrietà, alquanto innaturale, raggiunge spesso l’eccesso e diventa eccentricità.
Così si narra di Newton, che un giorno caricasse la pipa col dito d’una sua nipote, e si narra di Tucherel che una volta si fosse dimenticato perfino del proprio nome (Arago, 111). Beethoven e Newton messisi a comporre musica l’uno, a risolvere un problema l’altro, dimenticarono così completamente di aver fame da sgridare i servitori perché loro andassero apprestando del cibo, mentre loro pareva di avere già pranzato. Il Gioia, nella foga del comporre, scrisse un capitolo sul tavolato dello scrittoio invece che sulla carta. L’abate Beccaria, tutto preoccupato delle sue esperienze, si lasciò sfuggire, nella messa, di bocca, Ite, experientia facta est. San Domenico, trovandosi ad una cena principesca, tutto ad un tratto gridò battendo sul desco: Conclusum est contra Manicheos.
I mattoidi di Lobroso, insomma, hanno un po’ la fissa dell’ordine, sono pedanti e appassionati di minuzie. E però al tempo stesso si dimostrano abili e di buon senso nella quotidianità. In alcuni casi arrivano a conquistare il ruolo di patrioti o spiriti umanitari… capaci di influenzare le folle con la loro audacia e le loro fanatiche convinzioni.
Ecco, e invece i mattoidi che ha scelto Albani non sono capaci di influenzare le folle, non lasciano eredità e nessuno si sognerebbe di considerarli dei maestri o dei patrioti.
C’è poi un’altra cosa che mi viene in mente. Nel libro di Albani lo spazio è quasi completamente riservato alle opere degli autori: i cenni biografici sono abbastanza rari. Poi si capisce benissimo che molti di loro hanno trascorso vite un po’ disgraziate e che questa consapevolezza li ha condizionati (Niccolò Mancini, nella dedica alla figlia, la invita a non curarsi della cieca ostilità con cui l’opera verrà probabilmente trattata), ma in loro non c’è traccia di autocommiserazione e infatti lo sguardo di Albani non è mai compassionevole.
Anzi, a me sembra che i mattoidi di Albani abbiano una certa baldanza, un’allegra spregiudicatezza. Nella parte dedicata ai filosofi e idealisti c’è un tale Giulio Ser-Giaacomi che, ne “L’immutabilità dell’universo nelle sue forme”, dichiara che la sua superfilosofia si deve diffondere nel mondo a decine di milioni di copie. Oppure Marco Wahltuc il quale, polemizzando con Lombroso – che lo considera un mezzo demente, indegno di essere seriamente preso in considerazione da studiosi autorevoli come il Valdarnini – passa al contrattacco e liquida i libri del criminologo come un insulto al sentimento pubblico, frutto di una mente gravemente inferma.
E insomma, i mattoidi italiani non hanno alcun bisogno di essere difesi e perciò Albani riesce a fare del suo libro un resoconto molto sobrio e intelligente. Anche nei riguardi dei personaggi più bizzarri e delle idee più strampalate, mantiene sempre un approccio asettico, dimostrando di prendere molto sul serio tutto quello che dicono e quindi, implicitamente, sottolineando la sua e la nostra contiguità, o addirittura parentela, con i mattoidi, in quella che Daniele Giglioli – sul Corriere della Sera – ha definito, in modo assai felice, un affratellamento francescano di coglioneria universale. Quasi che, nascendo tutti potenzilmente mattoidi, si sia portati a solidarizzare con chi ha allevato il proprio germe di follia senza tentare, come altri, di nasconderlo o – peggio ancora – soffocarlo. Per non parlare di coloro i quali, essendo uomini di genio e, nello stesso tempo, alienati (la definizione, anche qui, è di Lombroso) si sono dedicati più alla loro alienazione che al loro genio.
Molti di essi abusarono, stranamente, dei narcotici, o delle sostanze inebbrianti nervose. Haller inghiottiva enormi dosi di oppio. Tasso era un bevitore famoso; Lenau pure negli ultimi anni era smodato consumatore di vini, caffè e tabacco.- Cardano si confessava instancabile bevitore, e Swift era il più assiduo frequentatore delle taverne di Londra.- Poe era dipsomaniaco, come l’erano Nerval, Southey, ed Hoffmann.- Rousseau era sì ghiotto di caffè, che lasciava aperte le stanze quando lo si faceva abbrustolire dai vicini.
Lo stesso Lombroso insomma, che pure tentava – in questo modo – di esaltare gli uomini di genio che non furono alienati, ce li rende molto più vicini e simpatici degli altri grandi che, fiduciosi, sereni, completarono la parabola dell’intellettuale carriera, cui non iscuotea la sventura, ne deviò la passione!!!
Sicché, ed è qui la bella intuizione di Albani, il lampo di genio che illumina i mattoidi è proprio lo scarto, quel difetto che ad un certo punto li fa uscire dal seminato e li rende irregolari. Quella irregolarità dalla quale non possiamo che essere affascinati.

Mauro Orletti

[Paolo Albani, I mattoidi italiani, Quodlibet 2012]

Un commento

  1. pietro spina

    Non vedi? Anche se una forza esterna pressa e costringe a procedere verso il basso, resta tuttavia nel nostro petto un qualcosa che ci permette di opporci e lottare contro di essa.
    (…)
    Perché se non deviassero [gli atomi] cadrebbero Tutti giù come gocce di pioggia, nel vuoto profondo E non vi sarebbero mai stati urti né collisioni e dai princìpi La natura non avrebbe creato mai nulla.
    (…)
    E anche la mente in tutte le cose che fa Ha una intima necessità per cui è quasi costretta a patire Quella piccola deviazione dai principi, in un luogo indeterminato e in un tempo incerto.

    LUCREZIO, De Rerum Natura, liber II, passim (trad. libera)

    Iamne vides igitur, quamquam vis extera multos
    pellat et invitos cogat procedere saepe
    praecipitesque rapi, tamen esse in pectore nostro
    quiddam quod contra pugnare obstareque possit?
    (…)
    Quod nisi declinare solerent, omnia deorsum,
    imbris uti guttae, caderent per inane profundum,
    nec foret offensus natus nec plaga creata
    principiis: ita nil umquam natura creasset.
    (…)
    Sed ne mens ipsa necessum
    intestinum habeat cunctis in rebus agendis
    et devicta quasi cogatur ferre patique,
    id facit exiguum clinamen principiorum
    nec regione loci certa nec tempore certo.

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