Il due nel due

“Parlava bene il Presidente
dell’uno che diventa due
ma non per questo il 51
diventa il 52″
CCCP, Rozzemilia

Il due nel due ci sta una volta, si dice. Alle elementari si dice così, ma il concetto rimane anche all’università, anche se magari non hai più bisogno delle dita per contare. Perché noi contiamo con le dita e associamo il concetto di numero a quello di quantità. Il due nel due, quindi ci sta una volta e si direbbe che ci sta proprio comodo comodo. Esattamente una volta. Potremmo anche dire che corrisponde a se stesso e infatti è divisibile solo per se stesso e per uno e quindi è detto numero primo. Non lo puoi spartire in parti uguali che non siano anche uguali a uno, come potresti fare ad esempio con il quattro, in cui il due ci sta due volte e quindi lo puoi spaccare in due parti uguali e ognuna di esse è uguale a due e non a uno. Per questo che il due è l’unico numero primo che è anche un numero pari, perché un qualunque altro numero pari sarebbe anche divisibile per due, essendo che “pari” significa “divisibile per due che dà per risultato un numero intero”. Intero, primo, pari. Due. Tutti aggettivi.
Perché noi diamo descrizioni dei numeri con delle parole e consideriamo i numeri stessi parole, anzi, parole che descrivono un modo di essere delle cose, quindi aggettivi. I numeri descrivono la quantità, in quanto noi consideriamo la quantità una qualità delle cose e i numeri li associamo al concetto di quantità. Che non è che sia una cosa così scontata, infatti ci si mettono dalle elementari a insegnarcelo così che quando arriviamo all’università non ci stiamo nemmeno più a pensare.
Così come un pittore non ci sta mica sempre a pensare che il blu è una radiazione con una lunghezza d’onda di circa 470 nanometri che sta tra il ciano ed il violetto. Michelangelo, per dire, probabilmente manco lo sapeva che il blu contiene il ciano e, se gli tiri un po’il collo, diventa violetto. Sicuramente lo sapeva che se mischi il giallo e il verde danno il blu e forse poteva pensare che il blu contiene il giallo, in qualche modo è più grande del giallo, anche se il giallo ha una lunghezza d’onda ben maggiore.
Anche Beethoven, che era Beethoven, non so se pensava che il re viene dopo il do e prima del mi e per questo “contiene” il do ed è contenuto dal mi.
Anche perché è solo per via di Guido D’Arezzo che, nella nostra cultura dell’Europa meridionale, consideriamo il do la prima nota, essendo che si potrebbe considerare anche la terza nota della scala minore di la e allora vai a capire chi sta in chi.
Ma a tutto questo non è che ci stiamo sempre a pensare. Così, quando è l’una, di giorno, a noi dell’Europa meridionale ci viene fame e quando è di notte ci viene sonno, e quando sono le due, se non abbiamo mangiato o dormito, ci viene ancora più fame e più sonno. ma anche se abbiamo molto sonno e molta fame non ci pare proprio che le due siano il doppio dell’una o che nelle due ci stia due volte l’una e via dicendo.
Non ci stiamo a pensare e facciamo bene, per restare saldi nella nostra cultura dell’Europa meridionale o, anche, sempre dividendo per due, della metà occidentale dell’emisfero boreale.
Un qualche filosofo antico deve aver detto che è proprio del filosofo vedere il due nell’uno e l’uno nel due. Che detto allora, quando il mondo era alle elementari, doveva valergli l’appellativo di “oscuro” o di pazzo, ma oggi come oggi, che siamo all’università, è chiaro che significa saper vedere la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità. E pare anche facile, che tutti stiamo lì a dire che vogliamo vedere ciò che ci accomuna con culture diversi e popoli lontani e ci immaginiamo di comunicare con abitanti di mondi lontanissimi che ci salutano con sequenze di note a cui corrispondono luci colorate. Però, guarda caso, alieni con gambe e braccia, anche se più corte e un po’ deformi, che accendono colori e suoni che rientrano nelle tavolozze e nei pentagrammi di Michelangelo e Beethoven. Anche se un po’ deformi. Così che facilmente ci immaginiamo di riconoscere in essi l’uomo che è “contenuto” dentro di loro o l’alieno che noi conteniamo in noi e via romanticamente filosofeggiando di un universo popolato di viventi che in quanto che sono viventi sono come noi.
Perché l’uno siamo noi che in quanto siamo un pluralità siamo anche due, ma il due non è che una somma di uni, come le dita ci dimostrano inequivocabilmente. E infatti anche gli alieni hanno le dita, anche se un po’ meno di noi.
Ce le hanno anche i cinesi, gli arabi e gli eschimesi e tutti sono come noi, cioè sono uomini, cioè contengono in se stessi quello che fa di un uomo un uomo. Anche se un po’ deforme.
E non ci stiamo mai tanto a pensare, che non sarebbe facile pensare, cosa è che fa di loro un due rispetto a noi. Gli occhi a mandorla o la pelle nera o il senso della storia o la religione nichilista. Cosa li rende diversi da noi? Perché sono diversi, anche se già dirlo ci fa sentire un po’ a disagio.
Perché dire la differenza fa paura più ancora che vederla. Perché quando lo vedi, il due, subito ti viene di guardarlo come somma di uno e divisibile per se stesso ma anche per uno e via dicendo. Ma il due è due e non sai quello che è in se stesso il due, ma intanto non è uno.
E non è nemmeno uno più uno. E per quanto allarghi la tua mente, parti col piede sbagliato se cerchi di comprendere. Perché forse non si tratta di contenere stavolta. Si tratta di lasciare stare per un momento l’uno, dimenticarsene quasi, arrivare al due.

Mario Mastrocecco

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