Chiasmo

Figure nere su rosso fondo. Achille e Aiace, quello detto Telamonio, giocarono a dadi. O a scacchi, a dama. Secondo alcuni erano astragali, che poi sarebbero una specie di dadi. Non è molto importante. Importa che giocarono, o forse neanche quello. Importa che sono seduti, uno di fronte all’altro. Da migliaia di anni, non si guardano nemmeno, ognuno gioca la sua partita con il destino. Uno di fronte all’altro, di profilo, per l’eternità.
Per inciso: dal VI secolo a.c. non importa più a nessuno cosa mai abbia contenuto quel vaso. Quel vaso non è più nemmeno un vaso, è il supporto di un’immagine. Non conta quello che c’è dentro ma quello che c’è fuori. Quel vaso non contiene, espone un’idea. E non importa che dietro quell’idea ci sia stato o meno un fatto. L’idea era nella mente di Exechias, dalle sue mani è, da allora, negli occhi del mondo.
Achille e Aiace erano cugini. Condividevano un insolito destino: essere eroi.
Eroi si nasce. Achille, si sa, fu immerso da neonato nello Stige, secondo la leggenda, fino al tallone, escluso il tallone, per cui rimase invulnerabile, escluso il tallone. Aiace, si sa un po’ meno, secondo un’altra leggenda, fu avvolto nella pelle del leone di Eracle, tranne che in un punto, anch’egli invulnerabile, escluso un punto.
Eroi si muore. Achille, dopo aver fatto strage di nemici e aver spedito nell’Ade la gloria dei Teucri, morì per mano del più pavido dei suoi avversari, Paride. Aiace morì poco dopo, per mano di un eroe, se stesso, dopo aver ucciso un gregge di pecore. Uno colpito dal fato nell’apice della sua potenza, l’altro finito su una spiaggia sotto il peso della vergogna.
Ma mentre giocavano questo non lo sapevano. O forse lo vedevano già, nel rotolare dei dadi, nel movimento delle pedine in cui sembrano assorti. Forse le armi che Achille indossa e che Aiace ha appoggiato alle sue spalle, alludono già all’assurda fine, alla disputa per le spoglie, alla forza umiliata dall’inganno.
In quel gioco, in quella scena, tutto il loro destino è presente, racchiuso in un unico momento, come in un vaso. Però fuori da un vaso. Saranno dentro una tenda, nell’accampamento degli Achei, fuori c’è tutta la guerra, tutto il mondo, tutte le Città, i Nemici, gli Amici, le Donne. Tutta la storia li aspetta fuori, mentre loro giocano, come fuori dal tempo, anzi, fuori da un vaso.

Nere figure su fondo rosso. Immensi eserciti si fronteggiarono in dieci anni di guerra. Schiere di soldati come formiche posero fine alle loro brevi vite, guidati da eroi invincibili e iracondi, mossi da passioni roboanti o costretti con l’inganno. I Greci assediavano Troia, volevano entrare, distruggere, sventrare la città. Troia assediata resisteva alla rovina portata dal capriccio di una donna. Non importa se ciò sia mai avvenuto davvero e se davvero è avvenuto così. Importa la storia, o forse nemmeno la storia, ma il modo in cui la si racconta.
Sulla punta dell’Asia minore combattevano soldati d’Europa. Si scontravano civiltà, dèi, ideali, destini. La tensione di questo scontro nella linea retta delle lance che convergono verso il punto su cui guardano i due eroi. Completamente assorbiti nel gioco di cui sono loro stessi pedine, mossi dagli Dei, invisibili ma appostati nello spazio vuoto alle loro spalle, come sul campo di battaglia. Dèi che giocano un’altra partita, più grande e più meschina, scontro di potere per interposta persona, senza sporcarsi le mani.
A loro volta anch’essi pedine di un fato insondabile, che da millenni gioca la stessa partita, lo stesso scontro, senza vincitori, senza motivo.
Soldati europei sulle sponde dell’Asia.
In tutto ciò, l’idea di Exechias è forse nella morbida linea delle schiene ricurve degli uomini, metaforicamente piegate nell’esecuzione materiale di un gioco altrui, cui sono condannati dalla loro nascita. Nella flessione delle braccia muscolose, il gesto partorisce la scelta, dalla potenza all’atto, dal pensiero all’azione sulla scacchiera, mentre lo sguardo immobile testimonia la rigida consapevolezza della necessità. Nel movimento umano resta un’unica umana grandezza: il coraggio della scelta nel molteplice, il movimento nella possibilità dell’errore, sola dignità possibile per strumenti del fato inesorabile. Onore di eroi, eroismo dell’umanità.
Forse è solo la pulizia e la potenza dell’immagine. Figura retorica resa in figura pittorica. Forse non è nemmeno un’immagine, è il supporto di un’idea. Forse nemmeno un’idea, solo un segno, l’intuizione di un destino che non si può toccare, non si può capire, ma solo assecondare nel suo convergere verso un unico punto invisibile. Il punto da cui tutto parte e da ogni parte attrae a sé, restando indecifrabile, inesprimibile, inutile, come il vuoto dentro il vaso. A noi, muti spettatori di una partita eterna, non resta che osservare dall’esterno il movimento concentrico e fisso.
Come un’immagine fuori da un vaso.

Mario Mastrocecco

2 commenti

  1. Euphronios

    Che godimento leggere questo tuo pezzo! Solo un po’ di “enfantprodigismo”, ma mai superfluo o compiaciuto. Non ci sarebbe neppure bisogno di guardarla l’immagine. È già tutta nella descrizione che ne fai.
    Mi hai anche fatto pensare a questo strano paradosso: Achille e Aiace giocano, magari con il loro destino… che però non governano (come non si governa il lancio dei dadi). E lo spettatore, o forse dovrei dire l’acquirente del vaso, pur distinguendo chiaramente le due figure, è costretto ad una visuale che – leggermente scorciata dal basso – non gli permette di capire su cosa esattamente si concentri l’attenzione dei due eroi. Sicché, loro, Achille e Aiace hanno sotto gli occhi il meccanismo attraverso cui si compie il destino ma non ne conoscono l’esito finale. Noi, gli acquirenti/spettatori, conosciamo l’esito finale (la loro fine) ma ignoriamo attraverso quale meccanismo/gioco si compia. In fondo, come dici tu, il ruolo giocato dagli dei – nella raffigurazione vascolare – non è nulla più di un’assenza.
    C’è un’altra cosa su cui mi hai fatto riflettere. La tecnica a figure rosse matura a ridosso del capolavoro di Exekias (530 a.C.). È come se, giunti al vertice di una forma espressiva – quella del pieno, in cui la figura viene delineata colorandola di nero – si sia sentita l’esigenza di andare oltre… e non semplicemente evolvendo, ma addirittura rivoluzionando. Il nero diventa lo sfondo e le figure vengono disegnate a contorno, cioè ricavate dal vuoto, che è sottrazione di spazio al nero. I particolari non sono più incisi ma dipinti a pennello (esaltando la plasticità della raffigurazione)… Siamo già nel proto-espressionismo (direbbe Daverio). Il cratere con “La lotta di Eracle e Anteo” è giustamente considerato un capolavoro assoluto di questa tecnica. Basta guardarlo (http://www.fenici.unibo.it/Fonti/Pindaro-%20Eracle%20Anteo.jpg): dicono molto di più una bocca aperta ed un sopracciglio leggermente aggrottato, che la linea dei muscoli in tensione.

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  2. mario

    Questa immagine è tornata spesso nella mia vita, perciò è stato molto importante per me riuscire a scrivere questo commento. Forse nel tentativo di fermarla, una buona volta, inchiodarla fuori dal vaso. Ma non è un’immagine, è un segno, un simbolo, e come simbolo torna nella mente prima che negli occhi e continua a portarmi dal fuori al dentro, dal tutto all’uno andata e ritorno. Per esempio adesso penso a un aspetto che mi è sfuggito: i due eroi guardano fissi le pedine o i dadi, la partita. Non guardano mai l’altro e nell’altro non guardano mai se stessi. Meri strumenti sotto l’inexorabile fatum, senza pensare alle cause delle cose, agiscono e basta, muti, forti, perfetti, davanti alla partita, davanti alla loro stessa fine, alla distruzione che già vedono senza guardare. Il loro eroismo di antichi greci è forse questo, non in una morte grandiosa da eroi romantici ma nella tragica accettazione di un ruolo nel cosmo. Ruolo di eroi, in questo diverso da quello degli altri uomini, che possono anche permettersi di guardare l’altro, guardarsi dentro, magari anche dentro al vaso, trovare paure e debolezze.

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