Una storia, più che altro una leggenda, aveva cominciato a circolare nel XIII secolo: Aristotele, dopo aver messo in guardia Alessandro Magno da Fillide (sua amante) e dalle sue arti di seduzione, viene da questa sedotto e trattato peggio di uno zerbino.
Nel tempo si è poi consolidata una lunga tradizione di storie simili, le Liebestorheiten, le follie d’amore. La vicenda è sempre la stessa: un uomo dalle qualità eccezionali – forte, saggio, ardimentoso, potente eccetera… – finisce per innamorarsi di una donna che lo manda in rovina, lo compromette e, inesorabilmente, lo fa rincoglionire.
Adam, Sampsonem, Loth, David, Salomonem / Femina decepit: quis modo tutus erit?
Sarebbe questa, almeno in apparenza, la visione che anche Lucas Cranach Il Vecchio sviluppa del Weibermacht, del potere delle donne. Una Fillide dallo sguardo che incenerisce, vestita in modo incredibilmente sfarzoso, ma très chic, cavalca il povero Aristotele, ridotto a quattro zampe e assai goffo in un camicione arancio che più ridicolo non si può. Come non bastasse, per colmo d’umiliazione, lei gli tira il barbone argenteo, prendendosi gioco, ad un tempo, dell’uomo e del suo pensiero (filosofico).
È l’evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) del Weiberlist, l’inganno delle donne, il cui esempio primordiale, ovviamente, è legato al peccato originale. Eva convince Adamo a trasgredire il divieto imposto da Dio. Ma lì la trasgressione è anche, e soprattutto, l’emergere di una naturale tendenza umana alla conoscenza. Sicché la donna, che pure ha determinato la rovina dell’uomo, ha il non trascurabile merito di aver determinato la fine di un mondo illusorio (il paradiso terrestre) e l’inizio di una vita consapevole.
Il tema del potere delle donne era molto apprezzato fra Quattro e Cinquecento, non solo a corte ma anche fra la ricca borghesia (quella che – ad un certo punto – diventa il committente principale della bottega di Cranach) e viene declinato attraverso una varietà di episodi che provengono dalla mitologia classica o dai testi Biblici: Giuditta e Oloferne, Sansone e Dalila, David e Betsabea, Lot e le figlia, Salomè e il Battista…
Però, ed è anche qui la l’assoluta originalità di Cranach, l’elemento erotico non prende mai il sopravvento su quello psicologico, rispetto al quale risulta sempre perfettamente equilibrato (la condanna della donna non è mai un dato certo).
In un dipinto giovanile sul tema, Salomè è dipinta con grande realismo, il suo incarnato restituisce perfettamente la consistenza della carne e la temperatura della pelle, gli abiti che indossa, di un gusto evoluto e raffinato, fanno pensare ad una dama in carne e ossa piuttosto che ad un modello idealizzato. Ma questa serie di indizi, che in un primo momento inducono lo spettatore a condannare una donna così reale e pericolosa, vengono poi contraddetti da altri particolari, meno immediati, che agiscono a livello psicologico. Ad esempio l’asimmetria fra la manica destra e quella sinistra dell’abito di Salomè (che riprende la stessa sfumata luminosità sul volto del Battista), oltre a creare un legame intimo e diretto fra i due personaggi, toglie ogni dubbio sulla possibile ambiguità di un gesto in cui ingenuità e crudeltà si collocano simmetricamente rispetto al movente. Fra l’altro, mancando Erodiade, lo spettatore – verso il quale la donna porge il piatto – diventa il destinatario del macabro trofeo, viene coinvolto nella colpa, diventa anche lui responsabile (mandante?) del delitto. E se è responsabile, al pari di Salomè, come potrebbe condannarla?
Nella versione matura dell’episodio (siamo intorno al 1530) Salomè è completamente trasformata. La sua bellezza si è fatta astratta e idealizzata, la sua espressione è impermeabile a qualunque forma di introspezione, ma il gesto… qui il gesto è tutto: la donna non offre più un trofeo, tiene il piatto vicino al grembo, prendendo su di sé la responsabilità di quel delitto. Anche la testa del Battista, pressoché identica a quella del dipinto giovanile, assume una forza ben diversa. Il contrasto fra il naturalismo del suo volto e la ieraticità (quasi iconografica) della sua carnefice, permette di leggere nei suoi occhi, semichiusi, un ultimo bagliore di vita… speso alla ricerca della bellezza (e del perdono) di Salomè.
Elementi che tornano in Giuditta con la testa di Oloferne, un dipinto coevo rispetto a quello di Salomè. Solo che qui scompare la linea obliqua che tiene insieme le figure dipinte e la testa di Oloferne, posta in corrispondenza del ventre della donna, è in rapporto di verticalità con il suo corpo. C’è, insomma, un’allusione all’idea della donna che, in quanto madre, genera sia il bene che il male. Una consapevolezza che qui, più che mai, confina la bellezza di Giuditta (una bellezza esangue e delicata, in forte contrasto con l’efferata violenza del collo reciso di Oloferne e con le tracce di sangue sulla lama della spada) in una dimensione irraggiungibile: irraggiungibile per lo spettatore, tenuto distante dalla balaustra in primo piano, irraggiungibile per Oloferne, che non riuscirà ad espugnare la città di Betulia – ormai al sicuro su una rupe lontanissima, appena dietro il tendaggio scuro – e non riuscirà a trovare gli occhi di Giuditta, persi in un punto indefinito, al di fuori di tutto, al di là di ogni colpa, al di sopra di ogni giudizio.

[Mauro Orletti]