Con il vento della frontiera

Tu mi parlavi di frontiere, di finanzieri e contrabbando
mi scaldavo ai tuoi racconti.
E mio padre sì, tu mi dicevi, quassù in montagna ha combattuto.
Poi del mio mi domandavi.
Ed io pensavo a casa, mio padre fermo sulla spiaggia […]
(Ivan Graziani, Lugano addio, 1977)

Insieme al ripetersi del ritornello e quindi delle parole in esso contenute, in Lugano Addio di Ivan Graziani ritorna due volte e in due contesti differenti la parola “fermo”. Che non è la cittadina marchigiana, pur vicina a quella di origine del cantautore. Fermi, come il lago di Lugano, sono i capelli della Marta presente nei suoi ricordi, fermo è suo padre sulla spiaggia. Spiaggia che, insieme al seguito della canzone, fa immediatamente pensare all’adriatico teramano o al più ascolano, che di movimento ne vede forse pochi giorni l’anno. Spesso quindi fermo proprio come il lago di Lugano. Curiosamente, la canzone sembra a prima lettura una critica bonaria della ragazza ricordata, appartenente a una cultura differente, lontana dalla provincia centro-italiana che Graziani ha cantato per quasi tutta la sua vita. Critica bonaria al ripetersi dell’addio che Marta canta, sulla falsariga di un canto anarchico, a una terra che probabilmente non lascerà mai. Come Ivan non ha quasi mai abbandonato la sua.
Nell’ammirare i racconti di Marta, nel riportarli, si sente inoltre il suo distacco da quel mondo proprio perché “fermo” come il lago. Solamente dal paragone con il suo, di mondo, emerge l’interesse dell’uomo curioso e in eterna ricerca: innamorato sì della sua provenienza, però anche conscio della sua limitatezza. Fermo è il lago di Lugano, tanto diverso, ma fermo è anche il padre sulla spiaggia e tutta la sua provincia.
Insomma, sembra emergere un circolo vizioso in cui non si capisce bene dove stia il movimento e dove la stasi; una falsa contrapposizione fra Lugano e Teramo, diremmo. Ma la dicotomia stasi-movimento è in ogni luogo, perché agganciata alle persone che ci vivono. Agganciata ad una umanità in perenne ricerca delle proprie radici: c’è chi le ricerca con un approfondimento ossessivo della cultura in cui ha sempre vissuto, c’è chi le ricerca con ossessivi spostamenti per il mondo. C’è anche chi pensa di non averne bisogno.
Io non so quale sia la strada migliore per trovare le mie radici, però so che ne ho bisogno. E, forse immerso da troppi anni nella cultura classica, amante e stanco insieme della quiete del Mediterraneo, ho deciso di usare il filo di Arianna sulla tela di Penelope. Di tenere cioè insieme l’amore per ciò da cui provengo (ognuno ha la sua Itaca con qualcosa/qualcuno in attesa) e la proiezione verso l’uscita dal dedalo della stasi che proprio la cultura mediterranea da cui proveniamo contribuisce ogni giorno a rinforzare.
Come si tengono insieme stasi, conservazione e movimento, progressione? Forse ci si deve spingere ai margini del conosciuto, un passo alla volta per sbilanciarsi ma con una mano protesa all’indietro per non distaccarsi completamente dal passato. Librarsi al vento della frontiera, sempre attenti a non volare troppo in alto. Dedalo, Icaro; Arianna; Penelope, Ulisse; Ercole. La frontiera.
La frontiera più estrema d’Europa è la mia origine. Si chiama Cadiz. Non solo è una delle città più a occidente del continente europeo, è anche considerata la città vivente più antica del mondo occidentale. E sul suo stemma ancora stanno le parole incastonate sulle colonne d’Ercole: NON PLUS ULTRA. Almeno fino a quando i navigatori non hanno deciso di spostare più a ovest la frontiera stessa. La mia origine è l’Europa. E Cadiz è l’emblema dell’Europa costantemente costruita e ricostruita, città di traffici e commercio dai fenici fino ai baschi e ai genovesi. Condizionata da tre religioni monoteiste. Protesa nel mare come se fosse naturale la sua predisposizione ad andare PLUS ULTRA, con un vento che ti spinge fino al margine della città (quindi dell’Europa) e ti porta a guardare oltre.
Il fatto è che questo oltre a volte è un inganno, è una sofisticazione. Come quella dei conquistatori che si sono spinti avanti solo per motivi commerciali, di dominazione, pronti solo ad esportare la loro cultura (oggi si chiamerebbe democrazia ma non si sa bene perché). Tanto da aver rifatto, consciamente o inconsciamente, il centro di L’Avana molto simile a quello della stessa Cadiz.
Allora, giunto al margine della frontiera, messo di sbieco per sfuggire un poco al vento, non guardo dritto verso il mare, verso l’Occidente estremo che sarebbe la collina del Purgatorio nell’Ulisse dantesco o una Business School statunitense per un carrierista continentale. Mi giro a sinistra, verso sud e cerco di scorgere qualche paese dove magari passare qualche giorno. Sempre per rimanere al margine della frontiera. Ad esempio ce n’è uno che si chiama Conil de la Frontera. Poi mi metterò in cammino per il ritorno, verso quei luoghi che avevo lasciato dietro di me, che mi appartengono e cui appartengo. Quei luoghi fermi come il lago.

[Claudio Cozza]

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...