Dell’innocenza perduta

Ma perché poi questa rivoluzione non s’è mai fatta? Qualcuno ha il coraggio di dire che è colpa di Prodi, come se ci si potesse legittimamente attendere una rivoluzione da Prodi. Qualcuno ha il coraggio di dire che è doppiamente colpa di Prodi, perché ha fatto perdere Veltroni, come se ci si potesse legittimamente attendere una rivoluzione da Veltroni.
Le rivoluzioni non si fanno mentre si sta al governo e non si fanno neppure stando all’opposizione. E non si fanno scegliendo come avanguardia insurrezionale Prodi o Veltroni. La rivoluzione non la si è fatta neppure con Togliatti. Berlinguer pensava al compromesso storico, quindi neppure con Berlinguer…
E il ’68? Nel ’68 se ne tornò a parlare, quasi quasi si tornò a crederci. Ma niente rivoluzione. E il ’77? Nel ’77 si provò ad immaginare una rivoluzione un po’ diversa, non più innescata dall’utopia di un contro-potere proletario ma dalla concreta liberazione del tempo umano dal tempo industriale. Nel ’77 si provò ad immaginare il modo in cui il lavoro si sarebbe evoluto ed il modo in cui avrebbe trasformato la società. Perché era ormai sotto gli occhi di tutti: la società mandava in soffitta il vecchio modello industriale e celebrava la nascita di un “post”-industrialismo nuovo fiammante (ammesso di considerare post-industriale il modello capace di spiegare la ristrutturazione produttiva in atto senza fare la minima concessione alle derive cui il concetto di “post” rischia di approdare… “disobbedienza civile” e altre menate estremistico-verbali che non convincerebbero un marxista, figurarsi un post-marxista).
Quel che il ’77 provò ad immaginare colpisce per esattezza anche se, va detto, il sistema produttivo aveva già messo in cantiere una nuova forma di sfruttamento: quella del lavoro mentale da parte del capit…. del dominio imprenditoriale.
La fervida immaginazione del ’77 e della sua generazione “post” venne stimolata, in un certo senso, dal messaggio trasmesso dal ’68, un messaggio che sopravvisse meglio che poté al passaggio da un’epoca all’altra. In fondo la storia è anche questo: trasmissione di modalità cognitive e trasformazione della memoria collettiva.
I risultati di quello sforzo immaginativo vennero confermati dal progredire della ristrutturazione produttiva che, da metà anni ’70, tenne a battesimo l’opera di ridimensionamento del lavoro concreto, basato sulla manipolazione (per quanto meccanica) del materiale, a tutto vantaggio del lavoro astratto, basato su apprendimento e trasferimento di informazioni relative al funzionamento delle macchine (in particolare quelle elettroniche).
Lavoro concreto, lavoro astratto… il lavoro è lavoro, per carità. Chi si sognerebbe mai di confutare la definizione scientifica secondo cui il lavoro è energia in atto e si misura in joule? Un joule è il lavoro richiesto per esercitare una forza di un newton per una distanza di un metro, perciò la stessa quantità può essere riferita come newton-metro. Un joule è anche il lavoro svolto per produrre la potenza di un watt per un secondo, ovvero il lavoro richiesto per sollevare una massa di circa 100 grammi per un metro, opponendosi alla forza di gravità.
Insomma: si compie una certa quantità di lavoro per portare a casa la spesa e questa quantità aumenta se, anziché abitare al primo piano, si abita al quinto. Perciò è lavoro andare all’università, sedersi, seguire la lezione o magari tenerla, apprendere, laurearsi ecc. Nel farlo si consumano calorie e la caloria è un’unità di misura del calore = energia = lavoro, esattamente analoga al joule (difatti 1 cal = 4,1855 J).
A che pro, allora, discriminare il lavoro che si fa con la mente da quello che si fa con i muscoli?
Semplice, per capire.
Per quanto possa sembrare assurdo, l’organizzazione produttiva “post”-industriale snobbò l’attività manuale preferendole, spudoratamente, quella intellettuale. Però, essendo in mala fede, non perse tempo a disinnescarla e a sottometterla al modo di produzione capitalist… al dominio imprenditoriale. L’analisi, ovviamente, non è del sottoscritto ma di un certo Franco “Bifo” Berardi, autore del quale invito a leggere il saggio “Dell’innocenza”.
La sua distinzione fra attività intellettuale e lavoro manuale, è ovvio, non si riferisce solo alla produzione ma al lavoro impiegato per produrre un bene. Non a caso parla di lavoro astratto anche in relazione a quei beni che vengono prodotti attraverso il controllo delle macchine, attraverso l’impiego delle nuove tecnologie. Che, ahimè, non sono fattori neutrali, innocenti, ma scontano il peccato originale delle forme sociali che le hanno create, cioè le forme sociali della produzione capitalist… del dominio imprenditoriale. Ecco perché sono diventate strumento di espropriazione dell’attività intellettuale attraverso un lento processo di smaterializzazione. Smaterializzazione come svuotamento di significato. Svuotamento di significato come mercificazione, mercificazione come svalutazione del concreto.
Carletto Marx, osservando gli uomini intenti a produrre oggetti per il bisogno di altri e per l’uso di altri, si accorse del rischio concreto (quello sì) del lavoro astratto. L’uomo era la sua forza lavoro, a prescindere dal modo in cui gli si chiedeva di spenderla. Il tempo dell’uomo era il tempo impiegato a produrre merce ed il suo valore era il valore di quella stessa merce. “La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose”.
Tirare in ballo Marx è comunque un bell’azzardo. Lo si fa a proprio rischio e pericolo, avendo ben a mente la sua distinzione fra concetto astratto di lavoro e ciò che si “fa” nello specifico, distinzione che serve a mostrare il carattere di equivalente del concetto di lavoro. Il corpo della merce che serve da equivalente, vale sempre come incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto. questo lavoro concreto diventa dunque espressione di lavoro astrattamente umano (Il Capitale, libro primo, capitolo 1). Al riguardo Marx fa un esempio molto chiaro: l’abito è il lavoro concreto, la sartoria il lavoro astratto. La sartoria, capito? Il taglia e cuci…
Insomma la distinzione non è tra movimento muscolarmente prodotto (che è direttamente causa dello spostamento di oggetti inanimati) e lavoro in quanto comunicazione di concetti. Non vi è nessuna confusione fra reale e tattile.
Il motto “lavorare con lentezza” aveva questo di miracoloso: senza fare alcuna distinzione fra reale e tattile proponeva una via che portasse fuori dal sistema dialettico storico-sociale di Marx e consentisse un ribaltamento dell’astrazione (alienazione) lavorativa: non più espropriazione del lavoro ma rifiuto del lavoro. Una vera rivoluzione (le famigerate 35 ore) che risolveva alla radice il problema, allora solo intuito, della perdita di contatto fra l’attività lavorativa (il taglia e cuci) e la merce (l’abito).
Dunque, visto che il processo di smaterializzazione era in atto, lo stimolo dell’attività mentale nell’era “post”-industriale non fece altro che accelerare tale processo. L’attività mentale fu sempre meno in grado di comprendere la complessità del suo prodotto.
La prova del nove? Le nostre città. Basta guardarle oggi: sempre meno luogo di scambio concreto di merci e, perché no, d’idee (a loro volta svuotate di significato) e sempre più ribalta di comunicazione astratta, virtuale. Bologna nel ’77 sperimentava l’eros collettivo, le case erano pulpiti dai quali rivendicare il diritto ad una sessualità antiproduttiva, le radio libere erano più che altro luoghi di interazione concreta prima ancora che di trasmissione via etere.
Il Movimento del ’77, orfano di un reale progetto di nuova società (il ’68 non era riuscito a trasmettere nulla al riguardo), si ostinava a difendere un forma urbana già superata. Il terrorismo, invece, agiva in direzione contraria: scegliendo la clandestinità – in fondo – si adeguava alla visione della nuova città “post”-industriale, quella in cui gli abitanti vivono giorno per giorno la loro condizione di clandestinità, accettano di proseguire l’opera di smaterializzazione avviata dall’organizzazione produttiva, imparano a muoversi sul piano astratto della visibilità mediatica, concepiscono l’omicidio come anonima spettacolarizzazione perché hanno definitivamente perso la loro innocenza. La svalutazione del concreto è massima.
Sgombriamo il campo da dubbi: il semplice fatto che un lavoro immateriale (consistente nella produzione di opere dell’ingegno, specie di quelle non destinate a regolare la produzione di beni materiali, tipo le poesie e i romanzi) acquisti un valore a seconda della quantità di denaro (idest di merci) con cui può essere scambiato, non autorizza a parlare di mercificazione. Anche in epoche passate gli uomini davano compenso al lavoro necessario per la produzione di tali opere. Dante mangiava il pane salato del cortigiano e così Petrarca e Machiavelli. Triboniano, che scrisse la più alta opera giuridica dell’umanità, era pur sempre un funzionario. E lo stesso Stagirita non se la passava meglio a fare l’istitutore del capriccioso re macedone. Guadagnavano tutti un sacco di soldi (per carità meglio che cavare patate sfidando la forza di gravità) ma meno dell’autrice di Harry Potter. Che il “successo” di un’opera intellettuale sia decretato dal pubblico (o dalle case editrici) non è più scandaloso del fatto che il successo di uno scultore come Bernini fosse decretato da un papa e dalla sua famiglia.
Ma smaterializzazione come svuotamento di significato, svuotamento di significato come mercificazione, mercificazione come svalutazione del concreto, questo sì, possiamo affermarlo.
Nessuna rivoluzione culturale, dunque. Nessuna rivoluzione armata. Nessuna rivoluzione di nessun tipo. Anzi: due anni di governo Prodi, la novità di Veltroni (quello che sa comunicare), la vittoria plebiscitaria di Berlusconi e Bossi. Tiè.
Ma che colpe abbiamo noi? Che colpe hanno il ’68, il ’77? Con chi o cosa dobbiamo prendercela? Forse, con la totale mancanza di un progetto alternativo di società. Nella società industriale chi era estromesso dal potere, e dai benefici da esso elargiti, poteva se non altro costruirsi una propria identità di sfruttato, di subalterno. Un’identità concreta. Nella società odierna, “post”-industriale iper-tecnologizzata non si dà altra identità se non quella prodotta mediaticamente, concepita come pura circolazione di immagini, come elaborazione artificiale di status symbol. Il Partito Democratico è proprio questo, aggregazione di immagini prive di identità, circolazione di parole che si danno il volto di Veltroni (quello che scrive libri). Eccola, la politica culturale che ha raccolto l’eredità più superficiale del ’77, che ne ha deliberatamente causato la dipendenza dall’economia e dal potere (ammesso che siano due cose differenti).
Allora avanti alle metropoli svuotate di qualunque funzione urbana, avanti all’alta velocità, avanti all’Expo di Milano, avanti al ponte sullo stretto, avanti alle cordate imprenditoriali per Alitalia, avanti popolo che – per protesta – vota Lega Nord e Italia dei Valori. Tiè.

[Mauro Orletti]

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