Percorsi soggettivi e…

…PERCORSI AUTOBIOGRAFICI

Esiste un intreccio essenziale fra l’elaborazione storica di tecniche di discorso biografico e la progressiva formulazione del concetto di soggettività. La graduale affermazione della coscienza individuale è da ritenersi in certa misura precondizione ed anche spinta propulsiva verso il consolidarsi nel tempo di evolute modalità di scrittura autoreferenziale.
All’interno di questa linea interpretativa si muovono gli studi di Domenico Giorgio raccolti nel volume Percorsi autobiografici da Boccaccio a Peppino De Filippo.
Le prime battute del libro propongono al lettore una attenta individuazione e analisi della presenza, nell’opera di Giovanni Boccaccio, di quelli che Paul de Man definisce i tropoi fondamentali di ogni discorso autobiografico: la prosopopea e l’epitaffio.
La prosopopea – che viene studiata diffusamente e il cui significato etimologico oscilla tra “fare il volto”, “personificare”, “rendere il volto” – è una figura retorica consistente nel prestare la propria voce a un defunto. Nella fattispecie, Boccaccio ricostruisce la biografia di personaggi illustri del passato, i quali, attraverso la voce e la scrittura dell’autore, possono parlare di sé e reclamare la legittimità del proprio operato passato, rendendosi esempi illustri ed emulabili per le nuove generazioni.
Come è indicato nel capitolo sugli arcana (naturae e imperii), il segreto ha un ruolo notevolissimo nell’itinerario che conduce alla soggettività. Un salto in avanti in tal senso lo compie, nella seconda metà del cinquecento, Gerolamo Cardano con il De propria vita liber. Lo scienziato, accusato da più parti di eresia, deve concepire un complesso sistema di difesa nei confronti della società civile, adottando tecniche simulatorie e dissimulatorie al fine di una propria riabilitazione. Cardano si racconta come scienziato e uomo eccezionale, riscontrando nell’autorappresentazione uno strumento necessario all’individuo eterodosso: a costui è consigliabile l’uso di tecniche dissimulatorie, ritenute legittime per la propria difesa dagli attacchi della società. L’esercizio di autodisciplina che consente di mascherare le reali intenzioni segna un passaggio fondamentale verso l’approfondimento soggettivo.
Ciò che è possibile in Gerolamo Cardano non lo è per Giordano Bruno. La visione dell’universo infinito e lo specchiarsi del filosofo nella visione della natura consentono al Nolano di superare la forma tradizionale di autocoscienza. La struttura stessa del suo linguaggio di forte carica semantica ma alogico, non suscettibile di verità o falsità e dunque infallibile fa decadere gli elementi strutturali di ogni narrazione autobiografica. Viene meno l’estensione temporale, il rapporto dello scrivente con i propri errori e la possibilità di inquadrarli in un visione prospettica. L’impossibilità per Bruno di rappresentarsi in forma unica lo spinge alla produzione di una molteplice e contraddittoria serie di autoritratti, a volte incompatibili tra di loro. Tuttavia una rivisitazione del proprio vissuto in forma narrativa gli sarà estorta quando dovrà difendersi davanti al tribunale dell’Inquisizione; in quella sede, in forma orale, dovrà fornire un resoconto autobiografico, formulare un racconto cronologico degli eventi della propria vita: in quella sede gli sarà necessario rapportarsi ai propri errori, confessarli e adottare strategie dissimulatorie, elaborare sistemi di difesa come aveva fatto Cardano a suo tempo. A questo punto anche per il parresiastès il rapporto con la verità non è immediato, ma al contrario diviene complicato e suscettibile di errore: la verità non è più esprimibile, nascosta sotto un intreccio, arduo a districarsi, di silenzi, omissioni e confessioni. Il linguaggio bruniano, da visione alogica e infallibile che era, si traduce – nei passaggi della “autobiografia processuale” veneziana – in confessione e richiesta di perdono. Una trasformazione (temporanea, sia chiaro: a Roma Bruno sceglierà di morire e non pentirsi di nulla) che mostra evidentemente la ragionevolezza dell’ipotesi interpretativa di base: l’esistenza di un rapporto ineccepibile di stretta influenza tra forme di autocoscienza, modalità e strumenti tecnico-retorici di narrazione del Sé cui si perviene.

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