Lettera a Saviano

Caro Roberto,
provo a rispondere alla tua lettera apparsa su Repubblica pochi giorni dopo la strage di sette persone tra Baia Verde e Castelvolturno e alla quale non saprei come rispondere (visto che non ci conosciamo) se non prendendo la penna in mano e iniziando a scrivere.
Confesso subito di essere uno scrittore, ma non di camorra, nel senso che nel mio romanzo l’intento non era quello di raccontare la criminalità, né una storia che avesse come sfondo ‘o sistema, ma sono napoletano e vivo a Napoli. Nella più ovvia delle condizioni di colui che narra qualcosa, quindi, quello che butto sulla pagina spesso e volentieri risente di ciò che Napoli e la Campania sono diventate. E quello che questa terra è, in questo momento storico, svelate le ipocrisie dopo innumerevoli libri, film, pièces teatrali, canzoni e documentari, ormai lo sanno pure le pietre.
Il giorno dopo il tuo compleanno hai pubblicato questa lettera in cui poni tanti interrogativi ai lettori colpiti dalla strage, evidenziando l’escalation degli ultimi mesi intrapresa per il controllo del territorio. La domanda principale, mi pare, ha a che fare con il problema dell’autopercezione che gli abitanti della nostra terra hanno di se stessi e del loro ambiente.
Il problema dell’autorappresentazione di un popolo è un problema cruciale rispetto a fatti di sangue così tragici come quelli cui, purtroppo, siamo abituati. Incrociare le due questioni, quindi, costituisce una vera e propria mazzata inferta alle coscienze di ogni singolo abitante di questa terra maledetta, mettendole in gioco, ancora una volta, nonostante la quiescenza dentro la quale si sono rintanate, quasi come se le sequenze di massacri in tivù e al cinema, gli approfondimenti giornalistici, le pagine di un romanzo, fossero solo e sempre la protesi di una fiction permanente girata tra Napoli e Caserta. E non il racconto di una realtà insanguinata che ogni giorno, lentamente, fagocita un contesto ricco di storia e talenti.
L’aspetto più triste in tutta questa faccenda, assistendo alla tiepida reazione alla strage di media, dei politici e della gente, è che la questione sembra interessare davvero a pochi. A te, ai tuoi lettori e amici, ai voyeur televisivi di mestiere e a pochi altri.
Il punto è che la rappresentazione della propria terra delle cosiddette persone perbene (quelle a cui sostanzialmente si rivolge la mitragliata di domande della tua lettera) è ormai costituita in larga parte dalla rappresentazione che ne fanno giornali, tivù, libri e quant’altro. Per quanto invadente, la realtà così com’è sembra ormai essere completamente fuori dall’immaginario dei singoli e anche quando è fatta di corpi bruciati, ammazzati e squartati, anche quando la puoi vedere specchiarsi nella pozza di sangue in cui versa un ragazzo di vent’anni che forse non c’entrava niente, desta davvero poca impressione negli occhi e nel cuore delle persone. Finanche quelle perbene. Finanche quelle che si ritengono estranee a tutto ciò e che forse sono la vera incrostazione che sta proteggendo la metastasi da qualsiasi opposizione civile e morale.
In questa situazione, i mass media offrono un quadro davvero sconfortante, unendosi alla cecità di un’intera classe politica e ai perbene in un unico apparato di rappresentazioni a carattere prevalentemente mistificatorio. Infatti, oltre l’articolo comparso l’indomani della strage sul Mattino a opera di Rosaria Capacchione, quanti articoli, servizi giornalistici, eccetera, hai visto, letto, sentito che non fossero in qualche modo fuorvianti rispetto a quanto si delinea come veramente accaduto?
Si è discusso del fatto che i sei morti ammazzati fuori e dentro la sartoria fossero neri, che questi sette omicidi vengono dopo una nuova serie di omicidi degli ultimi mesi, ci si è chiesto se fossero spacciatori, se non lo fossero e se, come nel caso del ragazzo di colore ucciso a Milano per dei biscotti, ci fosse da fare un mea culpa generalizzato per il clima di razzismo che da qualche mese c’è nel paese. Diciamola tutta anche in maniera piuttosto rozza. Da qualche parte in questo paese qualcuno deve aver pensato che fosse giusto morire a sprangate per aver rubato dei biscotti. Figurarsi i neri della sartoria di Castelvolturno, che forse erano dei veri pusher.
Non voglio dire che se i morti ammazzati fossero stati bianchi e dalla fedina penale intatta, gli abitanti della terra maledetta avrebbero avuto una reazione più forte. Non voglio dire che i nostri giornali sarebbero stati più critici. Non voglio nemmeno dire che i nostri politici avrebbero fatto e detto altro, oltre la solita propaganda militarista. Mi piacerebbe crederlo. Se così fosse, potrei dire di vivere in una terra di razzisti che almeno per se stessi e per i propri connazionali agirebbero diversamente. Non mi piacerebbe comunque, ma almeno potrei appigliarmi a questo, lottare contro il razzismo e sperare in un cambiamento, un giorno. Purtroppo temo che non sia così.
Credo che a nessuno importi nulla di quanto è accaduto e che l’apatia sia il cicatrizzante che sta tra l’incrostazione e la metastasi. Ormai siamo abituati. Siamo abituati quotidianamente a rinunciare alla nostra terra, siamo abituati a lasciarli fare, a non insorgere contro di loro, così come siamo abituati alla protesi di fiction di cui continuamente ci nutriamo per informarci su fatti che di finto non hanno nulla. È sangue vero quello che scorre dal gradino della sartoria verso l’asfalto della strada, eppure siamo abbrutiti, assuefatti da troppo interesse, ci siamo addormentati proprio nel momento in cui bisognava stare svegli. Come se guidando in autostrada avessimo calato le palpebre non su un tratto buio e monotono, ma nel bel bezzo di una coda. Siccome non andavamo a velocità sostenuta, l’impatto è stato meno forte. Ma finire fuori strada lentamente cambia di poco le cose, se finire fuori strada significa cadere in un burrone.
Ho scritto questa lettera non per sottoscrivere un cambiamento nel quale non credo, né una rivolta che tanto non arriverà. Ma solo perché ho letto la tua lettera su Repubblica e ho pensato che dovevi sentirti molto solo per arrivare a porre tutte quelle domande a una platea di persone che sai già probabilmente non ti risponderà. Ed è per questo che ti faccio i miei auguri, per farti sentire meno solo e sperando che presto ti sarà concesso di festeggiare o di non festeggiare – sarai tu a deciderlo – con chi ti pare e in maniera non isolata. Dunque, buon compleanno Roberto. Ovunque tu sia.

Massimiliano Virgilio

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