Monnezza a me

Nonostante tutto la monnezza sta ancora lì, almeno in periferia e nell’hinterland di Napoli.
L’orrore di questa ennesima emergenza rifiuti ha molte chiavi di lettura. Un mazzo di chiavi da tenere tutte assieme e poi al momento giusto (quando qualche giornalista del nord o qualche amico del nord o qualche nemico del nord ti pone l’immancabile domanda sulla monnezza) tirarne fuori una e infilarla nella testa del nostro interlocutore, che si mostrerà stupito, desolato, compassionevole ma mai, in definitiva, in grado di capire veramente quanto sta accadendo. Ma forse quello che sta accadendo nemmeno noi napoletani siamo in grado di capirlo. D’altronde, fossimo stati un popolo capace di cogliere al volo ciò che gira intorno, non ci saremmo ritrovati in questa situazione. Oppure no? Diciamola tutta. Nonostante passiamo per essere gli inventori del culto della furbizia applicato a modello sociale ed economico, non siamo poi così svegli. Non lo siamo per il semplice motivo che siamo l’unico popolo al mondo che sta vivendo una situazione così drammatica. Il resto del mondo sviluppato non sa cosa voglia dire ritrovarsi i rifiuti prodotti dal proprio stile di vita progredito marcire sotto casa per giorni e giorni, per mesi, per anni, per lunghi e puzzolentissimi quattordici anni. Rifiuti decomposti, andati a male, in via di decomposizione o freschi di giornata. Così come nel mondo arretrato non riescono a immaginare di poter produrre tutti quei rifiuti, di essere così ricchi da poterlo fare. Insomma, i ricchi sanno come smaltirli, i poveri, invece, non li producono nemmeno. Noi napoletani stiamo in mezzo a questa guerra dei due mondi, come sempre, un po’ cuore del Mediterraneo, un po’ buco del culo d’Europa.

Le ragioni, come le responsabilità, ormai le conosciamo. Cattiva gestione politica, cecità nella realizzazione di un ciclo dei rifiuti – o “realizzazione di un ciclo fittizio” per usare le parole della magistratura – infiltrazioni camorristiche, mancanza di senso civico della popolazione. Da mesi si discute delle cause dell’emergenza a livello nazionale e internazionale, eppure finora le soluzioni scarseggiano, anzi, tendono pericolosamente allo zero, nonostante l’ottica decisionista di cui si fregi, o si vorrebbe fregiare, il nuovo governo.

Una delle chiavi di lettura possibili è quella che vede noi napoletani un popolo disperato, privo di ogni riferimento democratico (e non), allo sbando, gregge anarchico finito nel guado di una globalizzazione che non capiamo, che ci domina, che qualcuno riuscirà pure a sfruttare, ma in ogni caso questo qualcuno o è criminale o è politico, o è amico di criminali e politici, e comunque dalle mie parti non è che se ne vedano così tanti di beneficiari della globalizzazione.

Siamo disperati e la cartina di tornasole della nostra disperazione è che pensiamo che ci sia qualcosa di peggio di questo e che tutto sommato la situazione va accettata così com’è. Siamo così rassegnati e adattati ai cumuli, ai roghi, al fatto che dobbiamo camminare per strada inventandoci il percorso, a doverci muovere su traiettorie obbligate dai cumuli, dal fetore – anche a rischio di farci buttare sotto da una macchina – da aver sviluppato la tendenza a immaginarci che ci sia altro di più temibile e orrendo oltre l’angolo. La vera disperazione è quando sei costretto a cambiare tragitto per tornare a casa dopo l’ennesima giornataccia al lavoro. La vera disperazione è quando inizi a ragionare esclusivamente in termini di negatività potenziale. L’adattamento a tutto, l’eccesso di tolleranza nei confronti del male, induce a pensare che tutto può peggiorare, anche l’inferno nel quale viviamo. Di conseguenza il nostro cervello non è più rivolto alle questioni: come risolvere il problema della monnezza? Chi lo risolverà per noi? Perché i politici che abbiamo votato non lo risolvono? Quando si risolverà questa situazione?
Noi napoletani non ce le poniamo nemmeno più queste domande, e sostenere che ciò dipenda da una normale e sacrosanta sfiducia maturata negli anni non è abbastanza, secondo me. La verità è che siamo disperati. Disperati e depressi. “Se qualcosa può andar male lo farà” recita la temibile legge di Murphy. Per noi napoletani Murphy è un vero e proprio oracolo. Con i sacchetti di immondizia, a quanto pare, sta andando proprio così.

Avete mai provato a guardare dentro un cumulo di spazzatura? Quando esco dall’ufficio e mi avvio verso casa sento la puzza di marcio arrivare e sfondarmi l’apparato olfattivo più o meno ogni cento metri (e a volte anche meno). Ormai lo prevedo e solo a vedere il cumulo da lontano comincio ad arrogare il viso come uno che sta masticando cinque limoni di Procida tutti assieme. Divento brutto, mi faccio pena, ma la mano davanti alla bocca e al naso non la metto. Mi sentirei ancora peggio di come mi sento, sarebbe come ammettere che vivo a Bagdad, ho paura che proprio in quel momento passi la telecamera di Sky Tg 24 a riprendermi o un fotografo a scattare la foto dell’anno. Non porto mascherine, non mi metto nulla davanti, faccio finta di niente, al massimo arrogno il viso, niente di più. Devo difendere l’onore della mia città a livello mediatico. Come se potessi nascondere lo schifo. Nemmeno fossi Silvan.

Disperati, depressi e sovraesposti mediaticamente, noi napoletani siamo anche abili occultatori dei problemi che quotidianamente, come individui, dovremmo affrontare. Molto spesso l’odore della monnezza ti entra nel naso appena hai superato il cumulo. Prima lo guardi, poi modifichi il tuo percorso in modo da evitare di passarci troppo vicino, lo oltrepassi e solo allora la puzza di marcio ti schiaccia il cuore. E pensi: e la puzza di piscio così tipica delle strade del centro? E le corpose defecazioni canine del Corso Vittorio Emanuele? E le cartacce? E la precarietà? E il costo della vita? E chi farà mai un mutuo a un collaboratore a progetto come me? Morirò solo? Riuscirò a invecchiare decentemente? Cosa facciamo sabato sera? E quest’estate? Il Napoli disputerà l’intertoto? Quella ragazza in autobus guardava me o stava semplicemente fissando il vuoto?
Ecco le domande fondamentali della quotidianità, più o meno per tutti, credo. Bene. L’emergenza le ha disintegrate senza termovalorizzarle. A cosa posso pensare se non alle buste rotte, schiacciate, ai cumuli di scarpe, verdure, plastica, merda, materassi (materassi!), pezzi di elettrodomestici, abiti, scatole di cartone e pannolini sporchi? A cosa posso pensare se non alle inchieste della magistratura, alle discariche, al compostaggio, al percolato? A niente. A niente. Non si può pensare a niente se devi fare zigzag tra macchine parcheggiate in divieto di sosta, cumuli, roghi, vigili urbani, transenne, pompieri, traffico, voyeur della monnezza. Le domande di ogni giorno le metti in stand by, non perché hai trovato una risposta, ma semplicemente perché non ha alcun senso starci su a riflettere. Anche se trovassi una soluzione a uno dei problemi che mi assillano, non riuscirei ad applicarla. La vita durante l’emergenza si mette in pausa, ma nonostante ciò non puoi fare a meno di pensare che nel frattempo, mentre gli italiani si pongono le stesse domande esistenziali cercando delle soluzioni, noi napoletani restiamo fermi, con la faccia rintontita dalla puzza e le orecchie aguzzate dalla sirena dei pompieri che si fa strada nel bordello. Mentre gli altri avanzano e cercano di dare risposte ai problemi, noi napoletani non possiamo fare altro che appiccare incendi, protestare, adattarci, sprofondare nella depressione, non lavorare, non studiare, non eccellere, non produrre, non divertirci, non soffrire, né andare al cinema o al teatro. O forse facciamo finta di fare tutto questo. Noi napoletani siamo bravissimi a fare finta di niente, andare al cinema a vedere “Gomorra” e poi tornarcene tranquillamente ai nostri cumuli e ai nostri roghi. L’altra domenica abbiamo persino preso parte alla “Domenica ecologica”, c’è stato qualcuno che ha preso la bicicletta e si è fatto un giro sul lungomare.

Noi napoletani dobbiamo ficcarci in testa che se continuiamo a subire così continueremo a subire per sempre. Perderemo la nostra storia, la nostra tradizione culturale e ogni legame con la realtà. Resteremo al palo, come si dice, e intorno al palo sacchetti della monnezza a raccontarci la storia della nostra ennesima sconfitta.

Napoli 29 maggio 2008

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