Marilyn degli elefanti

1987 un’operazione alla cistifellea e kaputt! Warhol viene seppellito a Pittsburgh.
2007 venti anni dopo, un’operazione commemorativa et voilà! Warhol in mostra a Pescara.
Sempre pieno centro. Sempre museo Vittoria Colonna. Questa volta (diversamente dalla mostra sulla Tartaruga) pienone di gente. Giovani e non. Pescaresi e non. Interessati e non. Questa volta con un biglietto d’ingresso di ben otto euro, alla faccia dei tre e cinquanta del povero Plinio De Martiis.
Perché di certo un manifesto pubblicitario a sfondo fucsia, con tanto di scritta WARHOL, difficilmente passa inosservato. Una sorta di reclame alla Circo Orfei insomma. Che il faccione di Moira sui manifesti fucsia (presenti, fino a qualche mese fa, su ogni superficie di almeno 5 metri quadri di tutta la città di Pescara) me lo risogno ancora la notte! E a pensarci bene, la Moira, quanto a labbra grosse e tinte forti agli occhi non è poi tanto differente dalla Marilyn serigrafica di Warhol! Vabè.
Un’operazione promozionale dunque, in grande stile Warhol, dicevo. Perché il signor Andrew Warhola (in arte Andy Warhol) iniziò la sua carriera proprio come grafico pubblicitario, diventando in breve tempo il più ricercato illustratore di accessori femminili a New York.
Poi, fra tutti gli accessori femminili, gli era venuta in particolar modo la fissa per le scarpe, che farà diventare in seguito l’oggetto di una serie di personali rielaborazioni creative.
Perché per Warhol, le scarpe sono uno status symbol, una sorta di carta d’identità per chi le indossa. Così che non mi stupisco di trovare lì alla mostra, fra le altre opere, “Diamond dust shoes” (1980). Una flotta caotica di scarpe multicolor in vernice di polimeri sintetici, che spuntan fuori da uno sfondo nero tempestato di polvere di diamanti. Il tutto realizzato con inchiostro serigrafico su tela. Tecnica, a quanto pare, cavallo di battaglia di Andy. E non a caso! La serigrafia gli permetteva di sfornare un quadro ogni quattro minuti. Di rendere le immagini seriali, in un processo da catena di montaggio.
Volti e oggetti di vita quotidiana (dalla Coca Cola alla zuppa Campbell, da Topolino a Mao) estraniati dalla realtà e stampati a ripetizione in un modulo puramente astratto e decorativo. Una sorta di fabbrica dell’arte insomma. Con tanto di lavorio meccanico e di capitale. Basti pensare che negli anni settanta, la principale forma di introiti per Warhol diventa la ritrattistica. Orami farsi ritrarre da Andy significa sborsare ben 25.000 dollari, per una tela su cui l’artista interviene solo negli ultimi ritocchi. Il resto dell’opera? La fa la sua Polaroid big shot in 60 scatti. Fra i quali ne verrà scelto uno solo, che sarà poi ingrandito in 40 x 40 cm e trasferito su telaio serigrafico. Per ogni ritratto vengono sfornate diverse versioni perché è pur giusto, per la legge del mercato, che ci siano doppioni da vendere ad un prezzo più basso. Forse sono proprio questi ultimi ad essere presenti alla mostra di Pescara. Quelli sulla serie delle “Drag Queens” di “Ladies and gentlemen” (1975) e la cartella dedicata a Mick Jagger (1975) tanto per intenderci. Ritratti che danno la sensazione di non esser esattamente la testimonianza nuda e cruda di un presente, quanto piuttosto di icone in attesa di un futuro.
E ora nel futuro ci siamo, son suonati vent’anni dalla morte di Warhol. E per uno come lui che dichiarava, dopo l’attentato del ‘68 per mano di Valerie Solanas: per tutto il tempo che sono stato all’ospedale , lo staff ha continuato a lavorare. Così mi sono reso conto che avevo veramente messo su un business dinamico, che procedeva anche senza di me. Ne sono stato contento, perché avevo già deciso che il business era la migliore forma d’arte. […]Dopo aver fatto la cosa chiamata “arte” o comunque la si voglia chiamare, mi sono dedicato alla business art. Voglio essere un business man dell’arte o un artista del business. Essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante…far soldi è un arte, lavorare è un’arte , fare buoni affari è la miglior forma d’arte.
Per uno come lui, dicevo, che dichiarava apertamente tutto questo, la mostra-macina-soldi otto-euro-a-biglietto di Pescara sarebbe stata a dir poco un vanto. Così come tutta quella gente: giovani e non, pescaresi e non, interessati e non, che c’è stata e che del povero Plinio de Martiis invece, non sospetta nemmeno l’esistenza.
E sì! Perché a ben vedere quel baraccone circense di icone che Andy ha messo su con tanta perizia, continua a marciare dinamicamente anche oggi. Anche qui a Pescara. Anche a distanza di vent’anni dalla morte. Continua a fare proseliti anche su un pubblico non avvezzo all’arte. Potenza della pubblicità!
E allora oggi, a pensarci bene, se sulla sua lapide avessero scritto davvero “finzione” (come desiderato da Warhol) io c’avrei scritto su col pennarello “furbizia”.
E già! Alla luce di quel che succede oggi, a più di vent’anni di distanza, il vecchio Andy c’aveva visto lungo.

Jessica Lagatta

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