Niente di nuovo sotto il sole. Quando si blatera di una mostra di pittura e del suo legame con la letteratura… niente di nuovo sotto il sole. Anzi, riciclo imbarazzante di innocue banalità.
Sono stato a Ferrara alla mostra Il Simbolismo, da Moreau a Gauguin a Klimt (a Palazzo dei diamanti fino al 20 maggio 2007). Mi hanno chiesto di esprimere un giudizio ma io niente, zitto, solo un piccolo e banale commento. E lo riporto su questa rivista così, impunemente. Perché il Simbolismo ha tenuto a battesimo decine di riviste più o meno scalcinate, più o meno fortunate (anche meno fortunate di Mr. Dedalus), pronte a dare il loro contributo alla causa: Le Décadent, Le Symboliste, Le Mercure de France, La Revue Wagnerienne.
La Revue Wagnerienne? Ecco: il simbolismo estorce al suo tempo un’arte globale, un’arte delle arti, una combinazione di poesia, pittura e musica. E il melodramma wagneriano, sfruttando l’inconsistenza delle note, realizza il più limpido modello di libera creatività.
Se un pittore vede il mare rosso deve dipingerlo rosso, ho commentato. Ma questo commento è una citazione da Gauguin. Niente di nuovo sotto il sole, come dicevo, però siamo solo solo all’inizio.
Nel 1884 Huysmans pubblica A rebours, estenuante breviario di estetica simbolista il cui titolo in Italia, per lungo tempo, sarà A ritroso. Traduzione che, evidentemente, poco sconfinfera a Camillo Sbarbaro che un giorno, di punto in bianco, azzarda un titolo diverso: Controcorrente. Non è che questa intuizione entusiasmi la critica. Il fatto è che Des Esseintes (il protagonista del libro di Huysmans) ha questo atteggiamento che tutto gli fa schifo, che odia la realtà borghese, che tanto vale sottrarsi al mondo e barricarsi in una villa da gran signori a contemplare vasellame e tendaggi… che poi in verità questo atteggiamento, questa fuga dalla realtà, assomiglia più alla battaglia di retroguardia di un’anima indebolita e nevrastenica che alla rivolta di uno spirito libero e davvero “controcorrente”.
Certo, nell’epoca del verbo impressionista, parlare di Redon come del nuovo maestro della pittura e scrivere di Moreau come del “principe dei sogni misteriosi, paesaggista delle acque sotterranee e dei deserti sconvolti dalla lava” è una cosa anomala, non dico scandalosa, ma anomala sì, controcorrente quasi, comunque non scandalosa.
Scandaloso sarà, semmai, Jean Morèas con il suo “Manifesto del Simbolismo” comparso nel 1886 su Le Figaro.
Perciò il Simbolismo, per pura convenzione, nasce nel 1886. Invece, se uno ha voglia, può anche dire che il simbolismo è già nato col romanticismo e con la poesia di Baudelaire. Baudelaire è un nome che non vorrei mai pronunciare perché quando lo pronunci la gente, per un motivo o per l’altro, annuisce. La gente che annuisce mi dà sui nervi. Però la prima definizione di simbolismo è di Baudelaire, tocca pronunciarlo questo nome. Tocca rileggere il sonetto Correspondances ed ammettere che la natura diventa una mappa di allegorie tra loro “corrispondenti”, e che questa corrispondenza, in Baudelaire, è la chiave di lettura dell’universo.
Perciò da un lato Redon e Moreau, dall’altro Baudelaire (più tutti quelli che annuiscono) e Mallarmé. Da un lato la pittura e dall’altro la poesia. Diceva Gauguin: se un pittore vede il mare rosso deve dipingerlo rosso. Per il poeta è un po’ la stessa cosa: se un poeta indaga la realtà, deve farlo con una lente d’ingrandimento più efficace del solo raziocinio.
Il positivismo puro e duro, in fondo, è alla frutta. A ricerca e progresso si sostituiscono trascendenza e soprannaturale, a metodi scientifici si affiancano procedimenti parascientifici legati allo spiritismo e all’occulto, i dati sensoriali vengono messi in discussione da quelli spirituali, il visibile esterno viene interpretato alla luce dell’invisibile del sogno.
L’influenza reciproca esercitata da poesia e pittura è evidente. A livello figurativo si tenta in ogni modo di recuperare la spiritualità di tutto ciò che esiste nella realtà e che non è direttamente visibile dall’occhio umano. Per dirla con Gauguin: se un pittore vede il mare rosso deve dipingerlo rosso. Non bisogna aver paura di rovistare nell’immaginazione, nel sogno, nell’inspiegabile: paesaggi, persone e natura non rappresentano solo se stessi ma hanno un senso trascendente. I simbolisti lo sanno e per questo popolano il loro mondo di sfingi e creature mostruose, di angeli e centauri. Rendono la donna fragile, languida, sensuale, peccatrice, angelo, vittima oppure causa di rovina.
L’uomo moderno è un uomo incasinato, complesso, sofisticato e isterico come Des Esseintes, e l’artista che vuole descriverne il mondo (interiore ed esteriore) deve ricercare un alfabeto di simboli capaci di esprimere nel particolare l’universale. Questa complessità è tutta nei quadri di Moreau esposti a Ferrara. Moreau rielabora ogni cosa, perfino il tempo: non più singoli attimi del divenire, ma una dilatazione infinita, una durata psichica. Ecco perché Proust lo adora. Niente di nuovo sotto il sole, ma Proust lo adora. Nella “Recherche” Elstir è anche Moreau, alle pareti di casa Guermantes sono appese tele di Moreau, Swann paragona Odette alla lussuriosa figura dell’Apparition di Moreau (nella sala II a Ferrara).
Banalità per banalità, Maurice Denis definisce Redon il “Mallarmé della pittura”. Redon infatti, dopo aver conosciuto Mallarmé, radicalizza l’elemento decadente dei suoi dipinti. Poi, dall’89, mette da parte carboncino e litografie e si dedica anima e corpo alla pittura, alla ricerca dell’irrazionale e del mistero, anche nei soggetti più semplici. Anche in un vaso di fiori. E così facendo rende omaggio all’amico botanico Armand Clavaud, che gli aveva fatto scoprire la natura al microscopio e gli aveva fatto leggere i libri di Edgar Allan Poe.
Comunque non so se sia stato un bene perché, come ricorda giustamente Learco Pignagnoli (Opere complete, Aliberti Editore 2006): “Tutti credono che Edgar Allan Poe fosse un alcolizzato e che sia morto di delirium tremens a causa delle sue bevute. Invece non è vero. Edgar Allan Poe aveva un’allergia all’alcol, tanto che gli bastava un mezzo bicchiere per essere già ubriaco. E certa gente di Baltimora faceva apposta a chiamarlo dentro un bar per sentirlo straparlare.”
E certa gente di Baltimora è certa gente di Ferrara: cioè Redon, Moreau, Mallarmé, Baudelaire (più tutti quelli che annuiscono). Più tutti quelli che, se vedono il mare rosso, lo dipingono rosso.
Mauro Orletti