“Match Point” di Woody Allen è un film filosofico, ha a che vedere con la filosofia. È un film ateo. In diverse interviste l’autore ha sostenuto l’inesistenza di un disegno inscritto nell’essere, ha parlato di assenza di un ordine, di mancanza di senso. La denuncia del non-senso, però, più che esprimere lo stucchevole piagnisteo di un plastico pessimismo cosmico coltivato da chicchessia, un po’ alla moda, risulta la manifestazione di un cosciente ateismo filosofico, il quale va così enunciato: giacché non vi è una struttura metafisica a reggere l’essere, la vita non è dotata di senso. Potremmo aggiungere “la vita non è di per sé dotata di senso”. Ciò è evidente per il fatto che se non vi è una coscienza sovratemporale e infinita che esista prima di me non v’è nemmeno un soggetto capace di tracciare le linee di un ipotetico disegno, attribuendo senso. Il problema è proprio questo, l’attribuzione di senso. Dio non c’è, conseguentemente l’uomo non trova nulla al di fuori di ciò che egli stesso realizza. L’uomo è quell’empiria che crea il soprasensibile morale e culturale, dal dal basso, da solo. L’uomo inventa. Per Allen non v’è nel mondo segno di alterità, di un “più di noi”. Tanto meno ne procrastina l’avvento. Esser dotati di senso vuol dire anche possedere una direzione, percorrere un tragitto pensato e poi intrapreso, stagliarsi per un fine. Ciò indica un divenire, mentre l’umanità è conchiusa nell’esser-già. L’uomo che è già e sempre, quello della terrenità, è un deperimento, cosa che muore, materia mortale. Secondo uno sguardo globale l’universo non è che un’angusta camera mortuaria, da cui il peso sulla creatura umana. Di ciò consta la statica condizione dell’esistente, fissa nella sua essenza che non ha sviluppi salvifici.
Evidentemente anche una posizione come quella delineata non si colloca al di fuori di un certo decisionismo iniziale. Il fondamento non è fondato, benché la fede nell’ateismo conservi, rispetto alla fede religiosa, un carattere maggiormente constatativo. In fondo si tratta di scegliere: è vero il semplice apparire, che mi dice “sono e poi non sono”, o è più congruo considerare che “sono già qui” come non-origine del mio evento? Il mondo è nell’essere, il mondo cade nel non-essere: trattasi di puro automovimento o vi è un Principio dell’Essere e del non-Essere? In ciascuno dei due casi l’individuo è trasceso e si ha a che fare con l’intima religiosità, con la fede. Poiché dirimere la contesa tra credenza e miscredenza implica uno spostamento, una ricollocazione metafisica. Si pretende un ferimento, un taglio nel cervello, l’acquisizione di un difetto: il fondamento non fondato. Occorre salda, saldissima fede.
Hegel riteneva la filosofia l’elevazione del mondo al concetto. Allo stesso modo, per intendere filosoficamente l’ultima opera dell’amato regista di Manhattan, occorre rinvenire il concetto della scena filmica. Un’opportuna interpretazione deve basarsi su elementi largamente cosmici più che micro-cosmici. È inevitabile che persino l’Infinito si manifesti tramite il particolare. Dio s’incarna in Cristo. Che, sebbene faccia convergere la dimensione del finito con l’universale, appare sempre in qualità di figura, come ente delimitato. Cristo è l’Infinito localizzato, il quale si rivela entro meccaniche sensibili. L’Assoluto in quanto visibile indossa vesti con cui si cala dalla trascendenza. Ma ogni vestito è un determinato vestito. Così ogni visione di Dio è una determinata visione, anche quand’è parola è di scena il particolare, un insieme di finite proposizioni congiunte. Solo in traluce, con abilità ermeneutica, ci appare ciò che è totalmente altro dalla fatticità materica/oggettiva, il senso. Sottoposto al nostro sguardo, però, l’Infinito è il finito, così come lo spirito è il corpo.
Riguardo al Cinema, dobbiamo dunque dire che un film è le sue scene. Tuttavia l’interpretazione si rivolge al senso, vale a dire alla non-fatticità oggettiva. I significati non sono mai riconducibili integralmente alla materia che li esprime, al contrario la materia dà forma reale ad un qualcosa che in sé non è sensibile. Un segnale, qualsiasi segnale è riconoscibile in base ad un accordo di senso con cui il “generico” si trasforma in “questo”. Ora, in “Match Point”, la catena degli eventi (che poi tale non è, perché priva di consequenzialità), le faccende private dei personaggi sono affatto prive di interesse per lo spettatore nella misura in cui non superano la barriera dell’insignificanza individuale. Il luogo scenico ideale è il confronto tra una visione atea-immanentistica del mondo ed un’altra (fede religiosa) che toglie l’universo dalla solitudine d’essere tutta la realtà esistente, ponendo dinanzi ad esso un futuro di risoluzione trascendente e salvifica. I personaggi di Match Point sono i punti di determinazione dello scontro tra due assoluti schierati l’uno di fronte all’altro; uno scontro dove, a parer mio, verità e menzogna sono semplici possibilità identitarie con impossibile attecchimento. Il limite umano consiste probabilmente in ciò, nel dovere oramai ritenere Vero e Falso rappresentazioni verbali disintegrate da ogni ontologia.
Non c’è niente di individuale nell’opera alleniana, perciò credo opportuno tralasciare le faccende del microcosmo. Il che vuol dire soltanto una cosa: le questioni di corna non rappresentano il nucleo concettuale del film. In esso viene espressa, infatti, una concezione della vita, si parla di Fortuna. Quando se ne discuta con adeguatezza ci si riferisce a ciò che sfugge al controllo dell’uomo, si richiama all’essere soggiacenti rispetto a dinamiche esterne impadroneggiabili. La vita è concepita come potenza del Caso.
Quando si consideri tutto ciò (l’esatta definizione di Fortuna), i soggetti cambiano di ruolo: Chloe – moglie di Chris, l’assassino – non è la donna fedele e tradita, bensì colei che esercita il controllo, che padroneggia ecc., di contro ad una realtà effettiva che le sfugge e di cui nulla sa. Allora la sua è solo fede, vale a dire cieca sovrastruttura che instaura il suo ordine nell’essere solo a patto di trasfigurarlo e assimilarlo al suo volere.
Ogni morale è una reazione alle strutture d’esistenza messe in campo, per così dire, dalla fisica; ma anche nella presa culturale del mondo quelle stesse strutture si conservano (meglio essere fortunati che talentuosi). La fisica percuote.
In principio era il caos e ciò che seguì fu la mera perpetuazione del medesimo; la fede è il riordinamento del caotico sviluppato astrattamente col solo sentimento.
Sono queste le polarità antropologiche (non individuali) del dentro-fuori la coppia, lui e lei. Vi è un al di qua e un al di là della ringhiera: l’insulsa, “facile” fede nel permanere e la coscienza che, come in un fiume, tutto scorre. In definitiva, due modi comprensivi dell’esistenza.