Pizzul – che prima di entrare in RAI fu centromediano di Udinese, Cremonese e Catania – dice che tutti quelli della sua generazione c’hanno un’impostazione di carattere radiofonico e quindi, se gli metti un microfono davanti, si sentono in dovere di parlarci dentro. E dice che si usano troppe parole inutili per momenti che… quei momenti basterebbe una sola immagine.
Pizzul – che si spataccò il ginocchio nella stagione ‘58/’59 e fu per questo costretto ad abbandonare il calcio giocato – dice che il linguaggio… più che il linguaggio delle parole è cambiato il linguaggio delle immagini. E le riprese televisive c’entrano qualcosa. All’inizio infatti c’erano soltanto due o tre telecamere che riprendevano la partita dall’alto. Mentre oggi, dice Pizzul, c’è una caterva di telecamere. E c’è anche una specie di ossessione cinematografica. Allora i registi televisivi gli viene la fissa di fare una good television e spesso si dimenticano della partita. Così, mentre il regista fa la good television, il cronista gli tocca aiutare il telespettatore a capire che diavolo succede in campo. Perché fra scatti, primi piani, replay, invasioni della tribuna e della panchina, il racconto televisivo… si fa fatica, dice Pizzul.
Pizzul – che mentre giocava a pallone si laureò in giurisprudenza – dice una cosa molto intelligente. Il calcio: ventidue uomini in mutande che rincorrono un pallone e cercano di buttarlo dentro a una porta e un altro vestito di nero, cioè l’arbitro, che corre senza mai toccare il pallone poi ogni tanto usa un fischietto e ogni volta che fischia si arrabbiano tutti. Il calcio: un fenomeno non molto razionale. A dargli un senso però, dice Pizzul, è la partecipazione emotiva. Chi racconta la partita deve trasmettere la propria partecipazione. Pizzul – che entra in Rai nel ’69, simpatizza per Udinese e Triestina ma in fondo tifa Torino – dice un’altra cosa abbastanza intelligente e cioè che il rito del campionato del mondo è alquanto ripetitivo. Cioè, anche se si continua a dire che ogni partita fa storia a sé, la liturgia è poi sempre la stessa: ci sono questi undici ragazzi che prendono a calci una palla, c’è il pubblico che tifa, c’è il pubblico che, quando perde, s’arrabbia… però, insomma, il canovaccio è sempre lo stesso.
Pizzul – che è stato voce ufficiale della nazionale in circa vent’anni di telecronache – dice di essere un appassionato di ciclismo. Non di calcio. Di ciclismo. E di essersi innamorato del ciclismo attraverso le radiocronache, magari un po’ enfatiche, di Ferretti e degli altri grandi del microfono che erano una generazione di grandi scrittori. Una generazione che narrava di epiche imprese, di scalate e della fatica dei corridori. La radiocronaca era letteratura. Era comunicazione suggestiva e il radiocronista c’aveva la capacità di evocare l’ambiente, di trasmettere umori e atmosfere.
Pizzul – che Italia-Slovenia del 21 agosto 2002 è la sua ultima telecronaca e alle parole seguono i fatti – dice che lo sport deve molto alla televisione però la radio resta le dea madre dell’immaginario sportivo. Le immagini, nel bene o nel male, banalizzano tutto come quando il cameraman stacca su uno che si soffia il naso o che parla al telefonino o che sradica un seggiolino e che non ha nulla della genuina follia di un Gassman curva sud.
[Mauro Orletti]