Esiste una disputa di lungo corso: è possibile scindere l’artista dall’uomo e l’uomo dalla sua opera? Generalmente si risponde affermativamente. I più la ritengono un’operazione necessaria. L’opera, attraverso la mediazione dell’artista, costituirebbe l’essenza dell’uomo, il suo prodotto non viziato, puro, autentico. E dunque, nel giudizio sull’uomo, quale aspetto andrà considerato? Quello visibile e immediato della corruzione oppure quello nascosto e mediato della purezza? Vi è tuttavia un caso che prescrive un atteggiamento differente. È il caso dell’ “uomo-teatro” (come Barrault definì Antonin Artaud), un esempio palese di inscindibilità fra vita e opera e di separazione del pensiero dal corpo. È lo stesso Artaud a pretendere un diverso sguardo su di sé: lo sguardo lanciato da una poltrona di teatro nel bel mezzo della terapia.
Antonin Artaud non esiste se non come attore e drammaturgo e come tale va giudicato. L’uomo affetto da disturbi psicologici e nervosi, l’uomo costretto ad entrare e uscire da case di cura, l’uomo sottoposto a terapie è l’attore che interpreta il suo ruolo.
Per molti versi “La passione di Giovanna D’Arco” e “I Cenci” sono esempi paradigmatici di quanto stiamo dicendo. Il ruolo svolto in entrambi è quello al quale lo costringe la crudeltà del suo tempo e la consapevolezza dell’impossibilità di sottrarsi alla spirale di violenza che lo caratterizza.
Nel film di C. T. Dreyer (Girato in Francia nel 1928), Artaud è un monaco confessore che assiste al processo e all’esecuzione della condanna pronunciata nei confronti di Giovanna D’Arco. Compare a tratti nella schiera dei volti ripresi in primissimo piano dal regista danese, la sua espressione è accomunata alle smorfie degli inquisitori, si confonde con l’ottusità e la cattiveria dei giudici, è contaminato dal male che guida le loro azioni, infine, è anch’egli presentato come responsabile del misfatto. Eppure, mentre Giovanna brucia e la folla insorge, il monaco regge con ostinazione un crocifisso: il simbolo che, negato alla santa durante il processo, le viene infine concesso – tra il fumo e le fiamme – quale estrema via di salvezza.
Ne “I Cenci”, tragedia dello stesso Artaud risalente al 1935, vi è la stessa visione della realtà: non esistono innocenti e, se anche vi fossero, sarebbero destinati alla morte come un qualunque colpevole. La famiglia Cenci, simbolo della società, sarà vittima sacrificale del male: i figli vengono calpestati e uccisi, Beatrice in particolare deve subire violenza nell’anima e nel corpo (come Giovanna D’Arco). Lo stesso Cenci verrà ucciso. Incesto, Parricidio… Il male quintessenziato, il male senza scampo. Il male contro cui è possibile opporre gli slanci del proprio spirito, l’estrema rivendicazione di libertà. Il male che porta alla morte (sul rogo, per mano di un assassino, rinchiuso in una clinica psichiatrica).
“Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione. E la peste è un male superiore perché è una crisi completa, dopo di che non resta che la morte o un’estrema purificazione.”
Mauro Orletti