Si fa fatica a scegliere libri da leggere, la mole è enorme e la decisione complicata. Neppure i consigli degli amici bastano a orientarsi nel vasto mare delle opere di narrativa. Certo, il suggerimento di un libraio di fiducia è un ausilio fondamentale, una bussola che difficilmente tradisce. Ma la scelta di dedicarsi a “Sacro niente” di Giovanni Bitetto, opera indicatami da un esperto libraio, ha motivazioni diverse.
In Abruzzo una delle maledizioni più ricorrenti è “mannaggia santo niente!”, espressione meravigliosa perché, in un certo senso, nel suo tentativo di salvaguardare il pantheon cristiano ottiene un risultato diametralmente opposto. È come se polverizzasse un intero calendario, riducendo a “niente” il concetto di santità. Se poi si considera che “mannaggia santo niente!” prorompe con frequenza disarmante dalla bocca di uomini, donne, bambini, giovani e vecchi, si fa poca fatica a intuire la portata sulfurea – per quanto indiretta e sotterranea – di questa maledizione.
Cosa merita di essere venerato come santo? Niente!
Certo “sacro” e “santo” sono termini con significati differenti. San Tommaso, che forse non sapeva sarebbe diventato santo, avrebbe distinto fra la santità, intesa come attributo in sé dell’essere, e la sacralità, ossia la possibilità di partecipare alla santità in virtù del culto.
In “Sacro niente” tutto gira attorno a una statua di Padre Pio (Giovanni Bitetto è di Terlizzi, in Puglia) collocata in una villa che è anche la sede di un’agenzia di pompe funebri. Qui lavorano gli impiegati dell’agenzia che, ciascuno a modo proprio, condividono con il santo idee, storie, riflessioni. A loro si uniscono i clienti, coloro che quotidianamente perpetuano lo strano rito, quello della morte. D’altronde “pompe funebri” allude proprio a questo: in latino “solemni pompa” è la processione solenne, massimo esempio di ritualità. E la ritualità è ciò che ci permette di esorcizzare la morte e, quindi, di avere un rapporto (da vivi) con essa.
Il primo capitolo del libro comincia così: “Ai funerali si piange, si sbuffa, si sta in silenzio…”. Incipit assai coraggioso perché la morte, salvo rare eccezioni, non ha grande fortuna in letteratura. Il primo bellissimo libro dello scrittore modenese Ugo Cornia esce nel 1999 con il titolo “Sulla felicità a oltranza”. Originariamente doveva chiamarsi “Fra poco saremo tutti morti” ma all’editore non sembrava una buona idea evocare la morte fin dal titolo: avrebbe scoraggiato possibili lettori.
Questo problema, evidentemente, non preoccupa né Giovanni Bitetto né il suo editore. La morte fa da sfondo all’intera narrazione. Così pure la ritualità ad essa collegata, il rito funebre, che nella sua solennità si contrappone alle meschinità umane e le fa risaltare. Meschine le persone, meschine le storie. Su questo ragiona uno degli impiegati dell’agenzia, l’autista, al quale la morte, e tutto quel che vi gira attorno, viene addirittura a noia. In fondo fra rito e routine c’è poca differenza. Ma se lui, e così pure gli altri personaggi del libro (il barbiere, il titolare, il figlio del titolare, ecc…), di fronte all’ineluttabilità della morte cercando di ragionare su un piano alto, metafisico verrebbe da dire, tirando in ballo spirito, anima, eternità ecc., la statua di Padre Pio, anch’essa protagonista al pari degli altri, ha una visione differente, diciamo laica. È una statua, consapevole della propria natura, della materia di cui è composta, del significato simbolico che le viene attribuito. Il mondo che osserva è totalmente fisico, è fatto di lavoro, attrezzi, materiali, azioni. Non c’è spazio per altro. È esattamente il punto di vista di una statua che, collocata su un piedistallo, per intercettare le vicende umane è costretta a guardare in basso, verso terra. In questo modo capta storie e le ritrasmette, senza sostituire la propria voce a quella dei protagonisti. Forse per questo il tono dei racconti è neutro, senza inflessioni o tic riconoscibili. Non c’è nemmeno spazio per divagazioni ironiche, affabulazioni compiaciute, inciampi verbali che permettano di tirare il fiato. La drammaticità della vita, delle vite narrate, è senza scampo.
Come la statua di Padre Pio non concede margini di salvezza (o speranza) a chi gli si avvicina per confessare il proprio dolore, così Giovanni Bitetto non concede salvagenti ai suoi lettori. Del resto la santità di Padre Pio, seppure ha senso parlare di santità, non ha alcun fondamento divino, è frutto della sola volontà umana. La volontà di cavare dalla sua vita l’attributo della santità è la stessa con cui si è cavata dalla pietra la sua immagine fisica. Immagine materiale che, dunque, può essere riprodotta, esposta, venduta. E chiunque può acquistarla, ad esempio il padrone di un’agenzia funebre. Padrone dell’agenzia e, in un certo senso, padrone della morte. Perché ha imparato a conoscerla, a vederne l’aspetto più prosaico, a coglierne l’assoluta relatività: ogni morte è una morte diversa, la scomparsa di una persona ha un significato differente per ciascuno di noi, parenti, amici, conoscenti. Solo il rito è sempre lo stesso, la routine non cambia.
Nel capitolo “Un discepolo”, dove si racconta del complicato rapporto fra un professore di filosofia ed il suo promettente allievo, anche l’approccio razionale, la speculazione, l’indagine sul senso sembrano fallire da ogni punto di vista. La filosofia non rende più chiare le cose, non garantisce dignità alle azioni e, in ultimo, non aiuta ad accettare la morte, a farsene una ragione. È solo nel rito, nella “solemni pompa”, che un orizzonte di significato sembra possibile. Ma la domanda resta. Cosa c’è di sacro in tutto questo? Niente.
[Giovanni Bitetto, Sacro Niente, Voland 2023]