Nel racconto “Il cappotto”, dello scrittore russo Nikolaj Vasil’evič Gogol, il funzionario di basso rango Akakij Akakievič è preso di mira dai colleghi: «I giovani impiegati ridacchiavano e facevano dello spirito su di lui, il solito spirito da ufficio; in sua presenza si raccontavano delle storielle, composta su di lui, sulla sua padrona, una vecchia di settant’anni, dicevano che lo picchiava, gli chiedevano quando sarebbero avvenute le nozze, gli cospargevano la testa di carta, dicendo che era neve». Ma il povero Akakij Akakievič viene maltrattato anche da un personaggio importante: «Quale fosse e in che cosa propriamente consistesse l’ufficio del personaggio importante, è rimasto finora ignoto. Bisogna sapere che il personaggio importante era diventato un personaggio importante da poco tempo; e prima era stato un personaggio poco importante».
Le cose sembrano cambiare quando finalmente, dopo molti sacrifici, riesce a comprare un cappotto nuovo. Il vecchio, infatti, è talmente logoro e rattoppato da essere inutilizzabile. D’un colpo, grazie a quell’acquisto, Akakij Akakievič guadagna il rispetto di colleghi e superiori.
Enrico De Nicola è il primo Presidente della Repubblica Italiana. Serio ai limiti dell’austerità, elegante, a tratti formale, sempre sobrio e misurato. Eppure… Eppure, per quanto suoni paradossale, Enrico De Nicola, don Enrico, pare uscito da un racconto di Gogol.
Al referendum fra monarchia e repubblica ha votato monarchia. Prima di far convergere i voti su di lui, i membri dell’assemblea costituente pensano a un altro nome. Benedetto Croce. Al referendum fra monarchia e repubblica anche Croce ha votato monarchia. Il successore di Enrico De Nicola è Luigi Einaudi, secondo Presidente della Repubblica Italiana. Al referendum fra monarchia e repubblica anche Einaudi ha votato monarchia. Insomma la Repubblica Italiana, di cui De Nicola è il primo presidente, nasce monarchica. La politica, in Italia, è una faccenda bizzarra e molto complicata. E De Nicola, al di là della maschera istituzionale, è un personaggio indecifrabile, a tratti contorto. In un certo senso è, al tempo stesso, l’Akakij Akakievič che cerca disperatamente di acquistare il cappotto, ma anche il personaggio importante che lo maltratta, quello che, «era diventato un personaggio importante da poco tempo; e prima era stato un personaggio poco importante».
Nasce a Napoli il 9 novembre 1877, altra epoca, lontanissima: Garibaldi è deputato del Regno d’Italia (e lo sarà ancora per 10 anni, fino alla morte); papa Pio IX, vive in Vaticano, si considera prigioniero politico e si dichiara nemico giurato del Regno d’Italia; Andrea Costa, Giovanni Pascoli e il loro insegnante, Giosuè Carducci, turbano i sonni della buona borghesia bolognese a suon di poesie e progetti rivoluzionari; il conte Carlo di Rudio, complice di Felice Orsini nell’attentato a Napoleone III, dopo aver combattuto con Custer nella battaglia di Little Bighorn, porta a termine una nuova spedizione militare contro la tribù dei Nasi Forati; lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij sta per affidare alla Russkij vestnik i primi capitoli del romanzo “I fratelli Karamazov”. E sia detto fra parentesi, a Fëdor Dostoevskij viene attribuita la frase: «siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol», frase che, probabilmente, si riferiva agli scrittori russi, tutti – in un modo o nell’altro – moralmente debitori del cappotto di Akakij Akakievič.
Anche De Nicola, come dicevo, somiglia a uno dei personaggi del “Cappotto” di Gogol. Cresce nell’Italia post-risorgimentale, epoca in cui l’ipotesi di una repubblica pare di sicuro abbastanza lontana. E proprio in quell’epoca vanno ricercate le origini della sua stravagante personalità.
Politicamente è un liberale, eletto per la prima volta deputato a inizio del secolo scorso, nel 1909. Il vero salto di qualità risale però al 1920, quando diventa Presidente della Camera dei deputati. L’anno dopo Giolitti lo indica come suo possibile successore per la formazione di un nuovo governo. De Nicola rifiuta e lascia spazio a Ivanoe Bonomi. È il primo di una lunghissima serie di rifiuti. Gogol avrebbe certo apprezzato quel comportamento strambo e un po’ grottesco: un numero impressionante di rifiuti a incarichi istituzionali ma anche il record di cariche di stato ricoperte… presidente della Repubblica, presidente del Senato, presidente della Camera, presidente della Corte Costituzionale. Un artista del “no” insomma, un “no” elaborato, trattenuto ed esibito per costringere gli altri, tutti gli altri, funzionari di basso rango e personaggi importanti, a occuparsi di lui. Il “no” di De Nicola è il “cappotto” di Akakij Akakievič. Non c’è da stupirsi. Nel racconto “Le memorie di un pazzo” Gogol scrive: «E tutto questo, credo, avviene perché gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalla parte del Mar Caspio». Ecco, la gente immagina che il cervello di un presidente della Repubblica si trovi nella testa e invece no, è bello pensare che anche il cervello di De Nicola lo porti il vento dalla parte del mar Caspio o meglio, dalla parte del golfo di Napoli.
Dopo la fine della guerra viene invitato a candidarsi con i liberali per l’Assemblea Costituente ma lui rifiuta. Poi, quando nel giugno 1946 l’Assemblea deve eleggere il capo provvisorio dello stato e la scelta converge su De Nicola, lui si dilegua, fugge nella casa di Torre del Greco. Raggiunto anche lì, oscilla ripetutamente fra il sì e il no, egualmente attratto dalla gloria dell’incarico e dalla vanità della rinuncia. Ha già detto parecchi no: più volte alla presidenza del Consiglio, una volta alla nomina a senatore, una volta all’elezione a deputato e un’altra volta a sindaco di Napoli. È fatto così: ama essere cercato, pregato, corteggiato fino allo sfinimento. Manlio Lupinacci lo bracca dalle colonne del Giornale d’Italia: «Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare». Ma De Nicola tiene duro. Stacca il telefono e si chiude in casa fra il dubbioso e lo sdegnato. Per convincerlo ad accettare la candidatura, l’amico e collega Giovanni Porzio gioca la carta degli affetti: «Ho sognato tua madre». E De Nicola: «Anch’io l’ho sognata e mi ha detto di non candidarmi». Due nomi avranno la meglio su quell’esibita titubanza: Giuseppe Saragat, che gli anticipa l’unanime volontà dell’assemblea di votare il suo nome, Alcide De Gasperi che gli conferma l’elezione a larghissima maggioranza (quasi l’80%). E don Enrico scioglie la riserva: «M’inchino alla volontà popolare». De Gasperi lo punzecchia: «Auguri, presidente. Il 1° luglio alle ore 12 dovrebbe giurare fedeltà alla Repubblica, se lei è d’accordo». «Presidente provvisorio», lo gela De Nicola.
Comunque il 1° luglio, davanti a Montecitorio, sono schierati carabinieri in alta uniforme, vigili urbani a cavallo, parlamentari, giornalisti, semplici cittadini. Tutti a sciogliersi al sole nell’attesa che arrivi il presidente. È mezzogiorno ma lui non arriva. Si fa desiderare. Bisogna attendere un’ora e mezzo prima di sentire rombare la sua Fiat 1100. Nessun corteo, nessuna cerimonia particolare. De Nicola non andrà nemmeno a vivere al Quirinale. «Sono un Presidente provvisorio. Non sono degno di vivere in una residenza per reali e pontefici». Rifiuta anche l’indennità da Presidente, 12 milioni di lire. Il simbolo di tanta frugalità, per quanto suoni incredibile, è il suo famigerato cappotto. Anche De Nicola ha un cappotto, ed è talmente logoro che a un certo punto deve portarlo in sartoria per farlo rivoltare. Quando si tratta di pagare, il sarto rifiuta in modo categorico: «Se un Presidente della Repubblica è costretto a farsi rivoltare un cappotto, io non ho diritto a essere pagato». La risposta lascia De Nicola parecchio amareggiato. Nella casa di Torre del Greco ha una scrivania di legno con due calamai: inchiostro acquistato personalmente per le lettere private, inchiostro presidenziale per le lettere ufficiali. Il giornalista Nicola Adelfi (pseudonimo di Nicola De Feo) lo descrive, giustamente, come «un uomo che trasportò fino oltre la metà del ventesimo secolo tutte le buone cose dell’Ottocento». Fra queste, si potrebbe dire, anche la rassegnazione al lato comico e grottesco della vita: «Akakij Akàkievic pensò, ripensò, e decise che bisognava diminuire le spese solite, almeno per un anno: eliminare l’uso del tè la sera, non accendere, di sera, la candela, e, se fosse stato necessario fare qualcosa, andare nella stanza della padrona e lavorare alla luce della sua candelina; camminando per le vie, mettere i piedi su pietre e lastroni nel modo più cauto e leggero possibile, quasi in punta di piedi, in modo da non sciupare troppo presto le suole; dare il più raramente possibile la biancheria da lavare alla lavandaia; e perché non si consumasse troppo, ogni volta, tornato a casa, togliersela e rimanere nella sola vestaglia di mezzo cotone, molto vecchia e risparmiata persino dal tempo».
Il 25 giugno 1947, a un anno dall’elezione, rassegna le dimissioni per motivi di salute. Ma l’Assemblea lo rielegge, 405 voti a favore su 431 votanti. Quando Terracini gli comunica l’esito della votazione risponde: «Obbedisco». Come Garibaldi.
Passa un altro anno. Il nuovo parlamento, a maggioranza democristiana, deve eleggere un nuovo Presidente, non più provvisorio. De Nicola, ovviamente, comunica la sua indisponibilità. Poi, come sempre, sparisce. Chi lo conosce sa che desidera essere rieletto, se possibile all’unanimità. «All’unanimità più uno» scherza Indro Montanelli. Invece viene eletto Luigi Einaudi. De Nicola fa buon viso a cattivo gioco ma ci resta malissimo, è inviperito, a distanza di anni parla ancora dell’episodio, lo considera una gran vigliaccata. E sembra di vederlo, mentre cammina per la strada e rimugina su quel che è successo.
«Uscito in strada, Akàkij Akakèvič si sentiva come in sogno. “Così questo, questa cosa…” diceva a se stesso, “non pensavo proprio che s’era arrivati a questo punto…” e poi, dopo un po’ di silenzio, aggiungeva: “Ecco finalmente che cosa è venuto fuori! E io proprio non avrei supposto che la situazione fosse questa”».
La parabola di De Nicola, a dirla tutta, è un continuo alternarsi di misura e sbilanciamento, fino alla definitiva rottura dell’equilibrio. Che nel racconto di Gogol’ coincide con il momento in cui rubano il cappotto al povero Akakij Akakievič, quel momento segna il punto di non ritorno, la catastrofe. «Il giorno dopo si trovò ad avere un febbrone da cavallo. Grazie alla magnanimità dell’onnipotente clima di Pietroburgo, la malattia procedette in modo più rapido di quanto ci si attendesse, e quando arrivò il dottore, costui, sentitogli il polso, non trovò nient’altro da fare, se non prescrivergli degli impacchi, l’unica cosa ormai che potesse evitare al malato di rimanere senza il benefico aiuto della medicina; e del resto il medico gli dichiarò che, dopo un giorno e mezzo, ci sarebbe stato l’inevitabile kaputt».
L’ex presidente De Nicola torna in Senato e il 28 aprile 1951 ne viene eletto presidente. L’anno successivo, a gennaio, si dimette. Lo convincono a restare ma poi, a giugno, si dimette di nuovo. Cinque anni dopo viene nominato giudice della Corte Costituzionale, di cui diventa anche presidente. Nel marzo 1957 arrivano, immancabili, le dimissioni. Si aggira fra gli incarichi istituzionali come il fantasma di Akakij Akakievič, che vaga per la città derubando i personaggi importanti dei loro cappotti.
Un giorno riceve la visita del deputato Ferdinando Tambroni. Don Enrico è raffreddato ma, al momento di salutare l’onorevole, si impunta: lo vuole accompagnare fino al cancello. Esce senza cappotto, chissà perché. Si ammala gravemente, broncopolmonite. Muore il 1° ottobre 1959. È l’unica volta in cui è costretto ad accettare senza riserve, senza poter dire “no”, senza cappotto, appunto.