«Messer Lodovico, dove siete andato a trovare tante coglionerie?» è la domanda che Ariosto si sente rivolgere dal cardinale Ippolito D’Este al termine della lettura di alcuni versi dell’Orlando Furioso. Evidentemente il cardinale – al quale, fra l’altro, l’opera è dedicata – non apprezza il poema, a differenza di innumerevoli registi, poeti, scrittori, artisti o semplici lettori. Dalla corte di Ferrara i versi di Ariosto scendono nelle piazze, nei mercati, diventano copione per l’opera dei pupi. Un vero best seller, insomma. Per alcuni il poema si trasforma addirittura in un’ossessione, il che è del tutto giustificato se si pensa al fatto che l’Orlando stesso è un’ossessione. I cavalieri che nell’opera scorrazzano in lungo e in largo sembrano matti, preda di qualche fissazione che li porta ad agire in modo assurdo, picchiando come una falena alla luce delle proprie manie. La furia di Orlando, come quella di Rinaldo e Rodomonte, è ingovernabile, animalesca. Gli eroi vengono trascinati qui e là da sacri furori che li rendono ciechi, non sanno e non immaginano dove e perché sono diretti. Ovviamente questo li rende piuttosto buffi. È come se Ariosto avesse cercato di tirar giù la pompa della chanson de geste, abbassando un po’ il tono, ridimensionando l’eroismo, sporcando un po’ il quadretto che fa da sfondo alle imprese (le gesta appunto) dei vari Orlando, Rinaldo, Rodomonte, Astolfo… Si tratta di un’operazione che ricorda la rivisitazione in salsa nostrana del western made in USA, non a caso battezzato “spaghetti western”. Ci sono ancora i pistoleri con il cappello calcato sugli occhi, i banditi che cadono dal secondo piano dei saloon, le carovane che attraversano le grandi praterie, gli eroi che galoppano verso il tramonto, ma sono riedizioni, modelli un po’ sgangherati con cui si gioca in modo leggero e svagato. Perché, a ben guardare, i pistoleri hanno una pessima mira e fanno cilecca volentieri, i banditi sono alquanto malmessi, le carovane sono lentissime ma sollevano gran polveroni. Insomma Orlando non è più l’eroe medievale tutto d’un pezzo, senza macchia e senza peccato, non è più John Wayne, Orlando è Tuco Ramírez, il brutto di Il buono, il brutto, il cattivo.
Su questo, credo, sarebbe molto d’accordo Vittorio Macioce, autore del libro Dice Angelica (Salani, 2021), composizione molto complessa e affascinante. L’Angelica del titolo, si sarà intuito, è quella del poema ariostesco e dunque la penna di Macioce affonda in quel complicatissimo gioco di trame, in quella geometria sicuramente non euclidea, dalla quale sembra impossibile riuscire a trarre un principio narrativo che non sia a sua volta un’erranza, una distrazione. Eppure riesce nell’impresa e lo fa, a mio avviso, in virtù del punto di vista assunto, cioè quello di Angelica, e nonostante l’affinità dichiarata con Astolfo, altro eroe della vicenda. Ed ha ragione Gianni Celati quando fa notare che i due, Angelica e Astolfo, stanno a un capo e all’altro della storia: lei, motore primo di ogni azione, spinta decisiva agli innumerevoli sperdimenti, tessitrice infaticabile di trame infinite; lui, ago della bilancia, ago che ricuce le smagliature della trama, che mette ordine nei mille intrecci, dando un senso alla trama e un senno a Orlando (Angelica che fugge. Una lettura dell’Orlando Furioso, Griseldaonline, n. III, 2003-2004).
Del resto fateci caso: compare Angelica (o scompare, è lo stesso) e tutto si mette in moto, le menti vanno in subbuglio, a partire da quella di Orlando, totalmente rincitrullito dall’amore per questa sedicenne, bionda, figlia della Via della Seta. Un po’ angelo, un po’ strega, ma sempre inafferrabile, eternamente in fuga. Alle volte è solo un’immagine, il ricordo di un corpo, una parvenza priva di sostanza, un inganno.
Ecco dunque, Macioce restituisce ad Angelica la sua corporeità, il suo peso specifico, e una voce. Una voce che, appunto, le serve per raccontare il proprio punto di vista. Che è quello di una ragazza che sa perfettamente di essere dentro una storia, che dunque sa molte più cose degli altri personaggi, che perciò ha diritto a esprimersi tanto quanto il narratore che in quella storia l’ha infilata. Per questo motivo i capitoli di Dice Angelica sono organizzati in modo da alternare la voce dell’una e quella dell’altro (il narratore, appunto), rinunciando a un baricentro narrativo. Una formula che si adatta perfettamente alla dimensione incantata dell’Orlando, in cui non c’è un vero spazio, a parte un indistinto vicino o lontano, e neppure un vero tempo, un tempo di progressione lineare, semmai c’è una sospensione del tempo, che alcuni chiamano leggenda.
Fra l’altro la lingua scelta da Macioce è una lingua totalmente contemporanea, che ha il preciso compito di trascinare Angelica, Orlando, Astolfo (e gli altri cavalieri) fino al nostro tempo, fin nell’attualità. In questo, verrebbe da dire, è fedele alla stessa operazione di messer Ariosto, che pure era andato a trovare «le sue tante coglionerie» in Boiardo, ovviamente, ma anche nel ciclo carolingio e indietro, fino alla letteratura classica, Virgilio e Ovidio in primis. Da quest’ultimo prende l’idea dell’anello capace di svelare gli incantesimi, di rivelare ciò che è vero e ciò che è falso. Dall’Eneide di Virgilio clona i personaggi di Eurialo e Niso, che nell’Orlando furioso diventano fanti saraceni: Cloridano e Medoro. Anche il viaggio sulla luna di Astolfo ha un precedente. In La storia vera, forse il primo romanzo di fantascienza mai scritto, Luciano di Samosata immagina i protagonisti della vicenda sorpresi da un turbine che travolge la loro nave e la trascina fin sulla luna. Qui, tra le altre avventure, gli capiterà di essere catturati dagli ippogrifi, creature fantastiche metà cavallo, metà grifone. Ed è proprio in groppa a un ippogrifo che Astolfo arriva in cima al Paradiso Terrestre da cui, poi, San Giovanni Evangelista lo scorta sulla luna.
Quel che a Macioce riesce in modo perfetto (quello per cui bisogna essergli straordinariamente grati), nella sua raffinata immersione nella materia dell’Orlando, tra riferimenti classici e citazioni pop, è lo svelare i meccanismi attraverso cui si muove «la giostra infinita dell’immaginario». Uso un’espressione dell’autore che mi sembra particolarmente felice nel riassumere la fortuna dell’opera. Oggetti, personaggi, ambientazioni vengono recuperati dal passato, reimmessi nella dimensione dell’incantamento e qui sublimati in una storia senza tempo, una storia che è madre di tutte le storie, che dalla letteratura latina – passando attraverso i cantari cavallereschi – arriva fino alle saghe contemporanee, alle serie TV, ai videogame. Sicché, se qualcuno chiedesse a Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, «Donna Giovanna, dove siete andata a trovare tante coglionerie?», non sarebbe strano sentirla citare, fra gli altri, proprio lui, messer Ludovico.
[Vittorio Macioce, Dice Angelica, Salani 2021]