Il terrazzo


Sono andato a trovare Manlio Bottini dopo il ricovero. Mi avevano avvisato di lasciarlo perdere in quanto l’esperienza aveva compromesso la sua lucidità e il suo stato di salute mentale mi avrebbe pertanto addolorato. Nonostante piovesse e facesse un freddo cane mi ha fatto accomodare sul terrazzo del vicino novantenne in cui si riesce ad accedere abusivamente da un buco nel bagno.

Di fatto è un’invasione bell’e buona di proprietà privata ma il vecchio — secondo Manlio — ha in realtà 190 anni e da 30 non si è mai visto da quelle parti; figuriamoci se l’avremmo visto col clima che c’era. Giustamente preferisce le morbide concavità di una poltrona farinosa che si chiama Filomena e sulla quale Ignazio Silone avrebbe dormicchiato un pomeriggio d’estate. Oppure può anche darsi che più semplicemente l’uomo quasi bicentenario gli lasci il campo libero, perché tanto, da quel terrazzo lì, si può scorgere poco più del nulla assoluto; una visione che schianterebbe a terra anche l’umore del primo degli ottimisti.

Menomale che non eravamo i soli, visto che si aveva la compagnia di alcuni vasi di plastica riempiti con della terra proveniente dal suolo lunare, che evidentemente non è adatta alla vita vegetale, o tuttalpiù con all’interno delle piante endemiche dalle cui radici ributtavano mozziconi di sigarette.

Fra un monosillabo e l’altro il mio amico Manlio Bottini ha tirato fuori una fotografia sbiadita che ci ritraeva nel periodo dell’esistenza in cui la pubertà è un grasso tizio presuntuoso che prende le decisioni al posto tuo. Eravamo con due belle signore straniere sulla quarantina capitate senza dubbio nel posto sbagliato. Mentre nelle nostre pose si celava una sorta di eccitazione esplicita e strabordante, le due povere donne avevano invece l’aria di chi va in un posto per ballare e divertirsi e si ritrova a partecipare come spettatore alla finale di un torneo di tressette fra residenze per anziani. 

Nessuno di noi due, comunque, si è ricordato com’era andata a finire quella sera.

Poi Manlio, ammettendo di non avere altro, mi ha offerto una patata cruda servita su un piattino da caffè, consigliandomi, prima di addentarla, di rimuovere i germogli: Contengono una tossina che gonfia lo stomaco – ha detto — e fa sanguinare gli occhi. Al che l’ho ringraziato di cuore per le attenzioni: Dei biscottini da thè sarebbero stati scontanti, eh? E siccome non mi andava proprio che gli occhi mi prendessero a sanguinare, nel dubbio ho cominciato a togliere i germogli uno ad uno. 

Ecco, bravo, così, toglili tutti o finirai per macchiarti i vestiti – Manlio seguiva le operazioni con la stessa attenzione di un etologo preso dallo studio di un orango che monta per la prima volta i lego. Che poi non voglio nemmeno comprometterti la vista di questo bel panorama – ha aggiunto – anzi, dovresti scattare una foto e mandarla al National Geographic.

La patata ripulita a guardarla non era delle peggiori, aveva la stessa espressione di un ginocchio guarito da un infortunio, e senza esitare ci ho dato un morso, anche per mostrare a Manlio che quando voglio riesco a non tirarmi indietro dinanzi alle sfide, sempre che quella lo fosse per davvero: una stupida sfida. Ma poiché dopo il primo morso ero già sazio mi sono premurato di nasconderla nella tasca del mio giacchetto a vento. 

Ho approfittato di quei pochi istanti in cui Manlio si è allontanato per portare indietro una brocca di acqua del rubinetto che mi ha fatto notare esce naturalmente colorata di un giallo paglierino. Per farla sembrare una cosa speciale ci ha aggiunto un limone intero che galleggiava e dava al tutto un tocco esotico, pur mancando gli ombrellini. Dopodiché me ne ha versato un po’ dentro un barattolo per le conserve che ho tenuto per tutto il tempo rimanente in mano come se mantenessi una barra di uranio impoverito.

Io devo dire che, al contrario di quanto mi sarei aspettato, Manlio Bottini l’ho trovato in gran forma mentale e anche fisica, se non si considerano certe cicatrici di bruciature sulla testa che ci ha tenuto a farmi ispezionare e che a suo dire gli ricordano la ex moglie, specie nei punti dove nascondono del pus purulento. Devo ammettere che la somiglianza con la ex moglie era davvero sbalorditiva, e per un attimo ho anche temuto che non si fossero mai separati e che addirittura, da un momento all’altro, quella da lassù potesse cominciare a lamentarsi del tenore di vita, com’era solita fare ogni volta che c’ero anche io; come se volesse costringermi a intromettermi nelle loro vite e farmi sentire in dovere di comprarle una borsetta nuova.

Per il resto non c’è molto altro da dire, tutto nella norma, forse che la gente si impressiona facilmente e si è scordata che Manlio Bottini ha sempre offerto patate crude e acqua avvelenata. Credo che l’abbia presa come strategica abitudine per non avere noie, e non c’entra affatto né la malattia né il lungo ricovero con un tubo giù per la gola. 

Comunque, uscendo di casa ci siamo promessi di rivederci una di queste sere, magari al cinema, in seconda serata quando si paga la metà e possiamo portarci le lattine di birra da casa. Pur sapendo che è una promessa che non avremmo al solito mantenuto.

Infine, mentre scendevo le ultime scale, l’ho sentito urlare il mio nome. Ho guardato in su e ho visto che s’era sporto con tutto il busto affacciato sulla tromba delle scale; dietro di lui la luce chiara diffusa dal lucernario lo faceva apparire un arcangelo con un messaggio da consegnarmi molto importante. Invece, ci ha tenuto soltanto a ricordarmi di rimuovere i germogli dalla patata che avevo nascosto nella tasca, altrimenti mi avrebbero sanguinato questi benedetti occhi. Segno, quello, che a Manlio Bottini non sfugge nulla.

E ieri, circa una settimana dopo il nostro incontro, Manlio Bottini mi ha chiamato per davvero e mi ha chiesto cosa davano al cinema. Io sapevo cosa davano: una specie di western con i robot; ma ho aggiunto subito che questa volta non sarei potuto andare, e stavo anche spiegandogli il motivo che me lo impediva.

Poco male – mi ha interrotto lui – ci andrò con la mia ex moglie.

Francesco Marsibilio

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