Verba volant

Mi son trovato, alcuni giorni fa, a parlare di libri di viaggio dentro un supermercato. Cioè, parlavo a telefono, ma ero dentro un supermercato. Così, fra lo scaffale delle conserve e il bancone dei salumi, la conversazione è approdata alla domanda: cosa potrebbe stare dentro un libro di viaggio? Un po’ di tutto, a dire il vero, e anche, in un certo senso, quasi nulla. Nel filone, ad esempio, potrebbero rientrare un reportage di guerra, la ricerca condotta su una comunità vittima di qualche evento cataclismatico, l’esplorazione del microcosmo dei lepidotteri.

E d’altro canto ammettiamolo, una guida alle 10 meraviglie da vedere una volta nella vita, l’instant book sulla capitale europea della cultura, il racconto della spedizione in solitaria in capo al mondo fatta in bici, a piedi, in canotto, su una gamba sola potrebbero benissimo non avere nulla a che fare con il viaggio, quantomeno con l’idea di viaggio di cui mi è capitato di parlare a telefono fra lo scaffale delle conserve e il bancone dei salumi.

Ora, non è un caso che questa conversazione sia avvenuta con Orfeo Pagnani di Exòrma, complice un articolo uscito su Singola in cui Francesca Ceci interroga Marco Agosta (Iperborea), Giulio Perrone (Giulio Perrone editore), Andrea Palombi (Nutrimenti) e, appunto, Orfeo Pagnani sulla letteratura di viaggio, sulla sostanza dei luoghi, sulla possibilità di scoprire ancora qualcosa.

Senza voler ripercorre tutti i ragionamenti fatti e le risposte date mi sembra che la sostanza del discorso sia questa: il fatto di aver viaggiato ovunque, aver messo il naso in ogni angolo del pianeta – averlo vagheggiato, rappresentato e, in ultimo, consumato – enfatizza il ruolo della letteratura, almeno di quella dotata di cuore aperto, sguardo originale, lingua da incantesimo.

Una sintesi perfetta di queste componenti è il libro di Adrian Bravi “L’idioma di Casilda Moreira”, fra l’altro pubblicato proprio da Exòrma. Ho comprato il libro perché stimo Adrian Bravi e conosco bene la collana nella quale è uscito e però, devo dire, anche perché mi ha immediatamente conquistato la storia: un professore di etnolinguistica, Giuseppe Montefiori, racconta ai suoi allievi che in una zona remota tra la Patagonia e la pampa argentina vivono gli ultimi due parlanti di un’antica lingua che si credeva scomparsa. I due custodi di quella lingua però, Bartolo e Casilda, non si rivolgono la parola da tanti anni, per via di una lite amorosa che hanno avuto da giovani. Da allora quella lingua se la tengono stretta nella testa. Come fare per impedire che si perda per sempre? Annibale, allievo del professor Montefiori, decide allora di raggiungere Kahualkan, un piccolo villaggio in mezzo alla pampa, alla ricerca dei due indios. Proverà a metterli insieme, registrare una loro conversazione e recuperare così quel che si può di quell’idioma magico e ancestrale.

La Patagonia. Può esserci un luogo meno raccontabile della Patagonia? Cosa puoi raccontare della Patagonia o di un viaggio in Patagonia dopo Chatwin? Nel 2011 sono stato in Patagonia e ho portato con me un quaderno per gli appunti. Cosa c’è scritto nel quaderno per gli appunti? Sono andato a prenderlo per vedere. C’è scritto, tanto per fare un esempio: «Si paga tutto e si paga caro. Si paga una tassa per entrare nel porto di Ushuaia: 7 pesos. Solo per entrare. Poi, una volta entrati: chioschi che vendono pinguini in alabastro, cormorani in legno, leoni marini in argento. Sulla destra. Sulla sinistra, invece, imbarcazioni per mini-crociere di 4 ore, oppure di 6, oppure di 8. Non c’è scampo. Mi metto anch’io in coda per navigare sul canale di Beagle. Escursioni con tappe su: isola dei pinguini, isola dei leoni marini, isola dei pinguini e dei leoni marini insieme, isola dei pinguini e dei cormorani ma senza i leoni marini, isola del faro, isola senza faro e senza animali…»

Onestamente, a distanza di anni, mi sembrano pensieri un po’ stracchi, forse perché stracca era la mia suggestione letteraria, e l’unico appunto interessante che ho scritto mi pare questo: «Mentre sfoglio una copia del vocabolario Inglese-Yaghan di Thomas Bridges (Zagier y Urruty Publicaciones 1987), il cui originale si trova proprio lì, nell’estancia Harberton, dimentico le persone che ho attorno, le loro manie, i loro tic da consumatori seriali di luoghi». Perché la lingua Yagan ha parole davvero bellissime: toiya-köna, che è intraducibile in inglese perché vuol dire “uscire in canoa cercando di arpionare pinguini o altri uccelli, oppure hakūtalataiyąa aiakāsi, che significa “Come gli altri, andrò con l’arpione dove l’acqua è più profonda”.

Allora, dicevo, ho letto di recente “L’idioma di Casilda Moreira”, che è un romanzo bellissimo in cui, appunto, si narra del viaggio di Annibale in Patagonia, che è un viaggio del tutto particolare, a più livelli. È un viaggio nello spazio, dentro luoghi fisici, visibili e tangibili, dentro cui c’è polvere, vento, silenzio. Ma anche un viaggio nei territori dell’inspiegabile, ai confini del magico, dove le meduse – come le parole – fuoriescono dalla bocca, e le parole, come Medusa, hanno poteri straordinari. Ed è, infine, un viaggio nella lingua. Nella lingua scritta, di Annibale, che ogni giorno e con ostinazione annota su carta il procedere della sua spedizione, nel tentativo di fermare gli eventi, fissarli, appropriarsene, quasi temesse di dimenticarli e in questo modo cancellarli. Ma è anche un viaggio nella lingua parlata, anzi, soprattutto nella lingua parlata, il günün a künä, che esiste esclusivamente in forma orale ed è conosciuta da due persone soltanto, Bartolo e Casilda, che non la parlano da anni. E il motivo per cui non la parlano è una lite d’amore e proprio il fatto di non rivolgersi la parola tiene in vita – come per magia – l’amore, il tradimento, il senso di colpa, la ragione stessa del loro vivere.

Forse questo spiega perché tutte le volte che Annibale sente pronunciare da Bartolo una parola in günün a künä e gliene chiede la traduzione si sente rispondere: “non c’è una traduzione”, come non c’è una traduzione per molti vocaboli della lingua Yaghan, perché qualunque traduzione, anche quella tentata da Thomas Bridges nel suo vocabolario, è in fondo un tentativo di appropriazione, mentre il valore magico della lingua sta nel parlato, in ciò che esce dalla bocca, come una medusa.

E mi viene in mente che da qualche parte ho letto una riflessione molto acuta di Piergiorgio Odifreddi sul fatto che la scrittura, in origine, era un esercizio faticosissimo, perché bisognava incidere le pietre o, se andava bene, i cocci, oppure bisognava lavorare i papiri e le pergamene e su quelle tracciare i segni a mano e alla fine, comunque, erano pochissimi quelli che sapevano leggere quei segni. E quindi il proverbio verba volant scripta manent aveva, in origine, un significato completamente opposto a quello che comunemente si pensa e cioè: le parole pronunciate sono leggere e vanno veloci mentre le parole scritte sono pesanti e non vanno da nessuna parte.

Parlare il günün a künä è come pronunciare un incantesimo, fintanto che rimane sulla carta non va da nessuna parte, poi, una volta liberato dalla voce, compie dei piccoli prodigi, cambia la vita delle persone, di Bartolo, di Casilda, di Annibale e anche del professor Montefiori, e rianima i luoghi, anche quelli esausti, quelli che non dovrebbero avere più nulla da dire, la Patagonia, i villaggi semi abbandonati come Kahualkan, le lande notturne della pampa, perfino la corsia di un supermercato tra lo scaffale delle conserve e il bancone dei salumi.

Mauro Orletti

[Adrian Bravi, L’idioma di Casilda Moreira, Exòrma 2019]

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