Farina bagnata

Quella sera incontrai per caso un celebre cuoco che mi parlò con entusiasmo di certi prugnoli trovati a Bygdøy. Era bambino quando si era imbattuto per la prima volta in questi funghi, ma poi non ne aveva più trovati, fino a quel momento. Li aveva riconosciuti anche dall’odore. Senza che io dicessi nulla, si lanciò in una filippica contro i manuali di micologia, che per descrivere il profumo del prugnolo parlano immancabilmente di farina bagnata. Contrariamente ai più, lui aveva tentato un approccio metodico: aveva versato acqua su un po’ di farina e l’aveva annusata, poi aveva annusato il fungo e infine di nuovo la farina. Ne aveva concluso che il prugnolo non sapesse di farina bagnata. E forse aveva ragione. Il danese Poul Printz scrive che gli autori dei vecchi manuali avevano in mente “l’odore assai più penetrante della farina stantia, raggrumata nella madia o rimasta in dispensa dall’autunno passato”. In altre parole, quello che sui libri viene definito sentore di farina bagnata appartiene probabilmente a un’epoca che non esiste più, quella in cui la farina non veniva venduta in immacolate confezioni al supermercato. Dunque è un odore che nessuno di noi conosce.

[LONG Litt Woon, La via del bosco, Iperborea 2019]

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