Prendo un taxi in aeroporto dopo aver concordato la tariffa. L’uomo al volante è serio, non parla, ha modi sbrigativi. Niente dello stereotipo al quale mi sono preparato: gente aperta, sorriso perennemente stampato in volto, una gran voglia di parlare, una buona dose d’improvvisazione per scucire un paio di pesos al danaroso turista. E invece. Trenta minuti di quasi assoluto silenzio dall’aeroporto José Martì alla città, trenta minuti interrotti soltanto dal lapidario commento ad ogni auto sorpassata: «Chevrolet Bel Air del ’55!».
Non so cosa rispondere, perciò sto zitto e guardo fuori dal finestrino. Cerco di non accartocciarmi sui soliti pensieri (“roba pesa” direbbe qualcuno) e di smaltire il cronico mal di testa post atterraggio. Se sono ridotto così dopo 10 ore di volo, mi dico, in quali condizioni sarei sbarcato a Playa Las Coloradas, dopo 7 giorni di navigazione su una barca male in arnese e con un tempo da schifo? «Cadillac Eldorado del ’57!» sentenzia il tassista puntando l’indice in direzione di una full size color amaranto.
Granma, così si chiama lo yacht di 19 metri e rotti con cui Fidel e il Che sbarcarono a Cuba nel dicembre del ’56. A differenza delle auto d’epoca americane che ancora circolano lungo le strade, la barca è oggi arenata nel Museo della Rivoluzione. Le hanno costruito attorno un memoriale, per cui la si intravede attraverso le pareti un po’ sporche di un’enorme teca in vetro. «Ford Fairlane del ’56!» snocciola ostinatamente l’uomo al mio fianco.
Alcuni soldati sorvegliano la Granma 24 ore su 24. Così… non perché ci sia un reale pericolo ma per enfatizzare il suo valore simbolico. La circondano alcuni residuati bellici di un certo interesse: aerei requisiti all’esercito di Batista, il motore dell’aereo-spia abbattuto durante la Crisi dei missili di Cuba e un missile terra-aria in tutto simile a quello che abbatté l’aereo-spia. Sicché il memoriale è qualcosa a metà strada fra un enorme reliquiario laico e un oggetto di propaganda antiquato e decadente. «Chrysler New Yorker del ’54!»
I turisti sciamano intorno a gruppi di trenta persone. Vengono scaricati da autobus inutilmente ingombranti che presto li vomiteranno altrove, al Castillo del Morro, al Capitolio, in Plaza de la Revolución, in un miscuglio improbabile di epoche, idee e narrazioni. Tutto confuso e a portata di fotografia, come l’improbabile parco auto in circolazione, che scarica nafta lungo il Malecòn. «Lincoln Capri del ’55!», l’elenco continua.
Chevrolet, Ford, Chrysler, Lincoln, sono le carrozze per turisti di piazza Navona e di tutte le piazze prese d’assalto da yankee vecchi e nuovi. Una volta ne ho vista una a Viña del Mar, il luogo meno pittoresco in assoluto e anche il meno adatto alla circolazione di carrozze. Eppure era lì, sotto una palma, ad attendere l’inossidabile turista, l’infiaccabile collezionista di gondole veneziane. «Oldsmobile 88 del ’53!»
Intanto il milite ignoto è lì, a piantonare cimeli di una rivoluzione alla quale l’isola sembra ancora legata, forse perché lontanissima nel tempo, distante quanto lo è per noi Italiani lo sbarco dei Mille a Marsala. Mitologia insomma, buona per le celebrazioni e le teche dei musei. D’altra parte un memoriale della rivoluzione serve solo a ricordare che una rivoluzione si è davvero compiuta. E bisognerebbe limitarsi a questo, ai memoriali, evitando di venderne i brandelli nei mercatini. Ma il tempo svuoterà i banchi di souvenir come è successo con Garibaldi, prima icona pop nostrana, oggi completamente assente dalle vetrine dei negozi. Però resta l’Italia unita, come a Cuba resta il socialismo che, a suon di riforme, sbiadisce verso qualcosa di diverso, magari di migliore. Chissà. «Ford Thunderbird del ’56!»
Lungo un muro della periferia dell’Avana riesco a leggere la scritta AMO ESTA ISLA. Forse resterà questo, l’amore sconfinato per un’isola che ha cercato di resistere al capitalismo di stampo imperialista, che è sopravvissuta al crollo dell’Unione Sovietica, che è diventata meta di turismo yankee grazie alla velleitaria pretesa di essere differente dai propri dirimpettai. Senza naturalmente diventare un modello. Perché il socialismo arranca dietro le divise di Fidel e Raoul come la fede cieca e irragionevole dell’Italia unita di Garibaldi arrancava dietro il cinico tatticismo di Mazzini. «La Thunderbird è una gran macchina, ma una Cadillac Eldorado del ’57 non si batte» sentenzia il tassista.
Poco dopo essere sbarcato dal taxi mi preparo una sigaretta davanti al Floridita. Un signore corpulento sulla sessantina si avvicina e chiede ridendo se mi sto rullando erba. «Semplice tabacco» lo deludo. «Lo so lo so», puntualizza con una sguaiatissima pronuncia yankee. Infatti è americano e vive a L’Avana dall’85. Almeno così dice. Ha qui la sua famiglia e quindi si è trasferito dall’Oregon. «Ma odio i comunisti» ci tiene a precisare. «Scelta complicata, gli faccio notare, se odi i comunisti». Non si scompone: visto che non poteva portare la famiglia in Oregon, è venuto lui a Cuba. All’inizio ha trovato lavoro in ospedale. No, non è un medico, era impiegato nella lavanderia dell’ospedale. Adesso lavora alla Real Fábrica de Tabacos Partagás. Però il suo incarico ha poco a che fare con i sigari. Si tratta di leggere: leggere per far passare il tempo agli operai. Trenta minuti per sala, 2 sale per piano, quattro piani in tutto. Al mattino e poi di nuovo al pomeriggio. Al mattino legge il giornale, il “Granma”, guardacaso. Al pomeriggio romanzi. «E chi li sceglie?» chiedo. «All’inizio li sceglievo io, oggi i lavoratori si mettono d’accordo e propongono un titolo. Vargas Llosa, Amado, Cortàzar. Prima, quando a scegliere era il sottoscritto, eran tutti romanzi russi. Fino all’89 i cubani erano abituati ad apprezzare qualunque cosa fosse russa. Come le Moskvič o le Lada. Però le cose sono cambiate e Gogol’ e Tolstoj non vanno più bene. Ci vogliono i gialli, che dureranno per qualche tempo. Poi chissà. Vorranno ascoltare solo la radio».
Gli chiedo cosa leggerà il giorno dopo.
«Dovrei iniziare a leggere un romanzo di Sepùlveda ma senti che idea mi è venuta. Anch’io scrivo e allora domani sai cosa faccio? leggerò il mio libro lasciando credere a tutti che si tratti del romanzo proposto dalla maggioranza. Alla fine vedremo cosa diranno, avrò un giudizio onesto sul mio lavoro».
«E di cosa parla questo romanzo?» domando.
«Dell’83° ribelle della Granma».
«Ma erano 82, lo sanno tutti».
«Non quando sono partiti. All’inizio erano 83. Poi uno di loro ha avuto un ripensamento. Cioè era lì, sulla barca, che guardava i compagni, quasi tutti contenti, dei veri esaltati, e ha cominciato a tentennare. Poi le armi arrugginite, la barca che fa acqua, il comandante con l’asma… gli viene su un ripensamento. Ma che può fare? Fermare la barca non si può, fermare la rivoluzione tanto meno. Allora di notte, quando nessuno lo vede, salta giù, in mare. L’acqua non è troppo fredda e ovviamente ha un salvagente. Sa di rischiare la vita ma, tutto sommato, è un rischio inferiore a quello che correrebbe se sbarcasse a Playa Las Coloradas. Dopo 17 ore a mollo viene ripescato da una nave cargo diretta a Cagliari. “Cagliari va benissimo” dice l’83° ribelle che, a proposito, ha anche un nome: Abel. E quindi arriva a Cagliari e qui deve decidere cosa fare, tornare in Messico oppure cominciare una nuova vita. Da che mondo è mondo la prospettiva di iniziare una nuova vita è migliore del tornare alla vecchia. Da Cagliari Abel si sposta a Olzai, dove inizia a lavorare come meccanico in un’officina che ripara trattori. A insegnargli il mestiere è Csaba, un ragazzo ungherese fuggito da casa per scampare alla violenta repressione del maresciallo Konev. Lo aiutano alcuni giovani compagni e una ragazza polacca, Elzbieta, che ha partecipato alla rivolta di Poznan ed è anche lei finita, chissà come, in quel posto dimenticato da Dio. Insomma, quello diventa il primo nucleo dei Nur, un’organizzazione rivoluzionaria che punta alla costituzione di una società neo-nuragica di matrice socialista. A capo del gruppo c’è Abel, che stringe una bizzarra alleanza con l’Anonima Sequestri e riesce così ad assaltare una caserma dei carabinieri a Mamoiada. Adesso i Nur hanno armi e, soprattutto, notorietà. Circolano voci e qualche leggenda. Molti sono convinti che Abel progetti di realizzare in Sardegna quel che Fidel ha fatto a Cuba. In Sardegna non c’è nessun Batista, ma la notizia si diffonde. Sembra quasi certo che la Russia stia mandando aiuti ai guerriglieri dei Nur. E poi un giorno, all’improvviso, Abel ed Elzbieta spariscono. Alcuni pensano sia stata la CIA. Altri sono convinti sia opera dell’Anonima Sequestri che, allarmata da tutto il clamore sollevato, ha temuto di perdere l’anonimato. C’è anche chi è convinto che Abel si nasconda nei boschi del Monte Ortobene, in attesa di dare il via alla rivoluzione. Però Csaba ha un’idea tutta sua, e la CIA non c’entra nulla e così pure l’Anonima Sequestri. Csaba ha visto gli occhi di Abel incrociare quelli di Elzbieta e sa che ancora una volta, per motivi completamente diversi, ha tentennato, come quella notte sulla Granma. Sa che ha scelto il mare, questa volta senza salvagente. Mentre ripara trattori nella sua officina di Olzai, risponde alle domande di un giornalista interessato a scrivere un articolo sulla folle storia dei Nur. “E quindi continuerà a riparare trattori per il resto della vita?” “Finché avrò messo da parte soldi a sufficienza per comprare una Ford Thunderbird del ’56. Dopodiché farò armi e bagagli e andrò lontano da qui”».
«La Thunderbird è una gran macchina» dico allo yankee, «ma una Cadillac Eldorado del ’57 non si batte». Lui mi guarda di traverso come se lo avessi interrotto inutilmente. Ne approfitto per sganciarmi e annunciare che andrò a bere un daiquirì in un posto migliore.
«Per un paio di pesos ti accompagno a bere il miglior daiquirì di tutta l’Avana, fidati».
«Non è che non mi fidi» gli faccio notare «è solo che in una società neo-nuragica di matrice socialista, pensavo, nessuno dovrebbe fingersi qualcun altro, nessuno dovrebbe inventare storie senza capo né coda per scucire un paio di pesos a un turista qualunque».