Il processo

Prefazione inedita a Il processo di Franz Kafka

Quando chiedevo a Felice cos’è che la turbava, dentro di me, già sapevo di aver mosso male; di essermi cioè messo da solo sotto lo scacco ineluttabile di una forza oscura che può dirsi femmina e soltanto tale; forza femminea due volte più potente ed esoterica di qualsiasi altra. Insomma, per dirla in altro modo, era come se nello scacchiere della partita delle nostre vite, la mia e quella di Felice Bauer, mi apprestassi subito a perdere non per una ma per ben due volte: non solo ero il giocatore sconfitto al di qua della scacchiera, ma, come sdoppiato, ero anche il misero re, rimpicciolito alla dimensione di una pedina, privo di scappatoie e condannato a morte.
Felicetta mia, che c’hai? – le chiedevo un po’ impaurito.
Niente – mi rispondeva lei – non ho proprio niente.
Stizzita poi s’aggiustava i capelli, sempre trascurati, e continuava a declinare ossessivamente la sua risposta: Cosa vuoi che abbia; Lascia perdere; Nulla che ti riguarda; Ho mal di testa.
Io la lasciavo dire, chiaramente per farla sbollire; ma andava così avanti per decine e decine di minuti, a sentenziarmi contro: Stai pur tranquillo tu, Franz, continua pure a leggere, o a scrivere, a fare quel fai come se fosse la cosa più importante al mondo – mi diceva. Io, allora, scrivevo per finta, perché non ero mai molto ispirato in quei momenti di terrore. E anche quando canticchiavo o le proponevo di ascoltare un bel passo di un libro mio o altrui, lei pareva impassibile, anzi sembrava addirittura schifarli, e schifarmi di conseguenza. E per di più, mentre blaterava imperterrita, non era raro che si esibisse in quel rito satanico e perverso di rassettare con smania la stanza o qualsiasi altro luogo in cui ci trovassimo; come se cadesse in preda della smania di pulire fino al più remoto angolino della finestra già tirata a lucido, dove persino la polvere si sarebbe rifiutava di andare una seconda volta a posarsi.

In quel niente di risposta, m’è apparso chiaro soltanto in seguito, c’era soltanto un’assoluzione apparente, che celava altresì la certezza di una ben non specificata accusa. Ma, purtroppo, all’epoca non potevo capire che certe cose vanno così per chiunque e prendono la stessa piega in milioni di relazioni uomo-donna; colpa mia, lo ammetto, visto che non avevo molta esperienza in fatto di fidanzamenti, specie con quel tipo di donna di cui Felice poteva essere portata a esemplare rappresentativo: donna in carriera, aspirante dirigente d’azienda, spossata dal lavoro e allo stesso tempo ambiziosa come poche altre, volubile d’umore a fasi alterne. E dire che l’amico mio (Max Brod), mi aveva messo in allerta: Occhio, Franz, la Bauer è una donna ad alto mantenimento, terribilmente seria – mi diceva – e non te la caverai tanto facilmente mostrandoti, al tuo solito, penoso o colpevole.
A ripensarci ora, mi sento uno stupido, io, che volendo ristabilire la serenità nella coppia, o la buttavo sul ridere oppure riflettevo sulle mie possibili responsabilità, aprendo così a una soluzione pacifica fra le parti. Allora mi chiedevo: Franz, forse che hai detto qualcosa di sbagliato? Ma non mi veniva in mente nulla. Quindi poi lo chiedevo a Felice: Felice, forse che ho detto qualcosa di sbagliato? E Felice: No, niente. Ecco, appunto, e mi dava le spalle, e rassettava, e spostava i mobili, o piegava i vestiti per il cambio stagione. Perché?!
E io, a quel punto, come trascinato da una catena che lega le colpe alle accuse, tentavo ancora una volta: Feli’, dài, su, dimmi, ho per caso mancato di cortesia e non me ne sono accorto?… Che forse ho sbagliato la scelta dei fiori, eh?… Sì, ho capito: toccava a me pagare la cena di ieri?
Invece di lasciar perdere così facendo mi rinchiudevo in una gabbia di pensieri sempre più stretta. E me ne facevo venire di ogni, interrogativi e insicurezze a non finire, senza però mai arrivare a una conclusione certa, se non quella di peggiorare la mia situazione. Insomma, di cosa Felice volesse accusarmi io proprio non lo capivo.

La mia colpa non credo portasse un nome esatto, e non derivava da un motivo vero e proprio. L’unica certezza alla quale sono giunto è che l’essere fidanzati è una condizione disumana, innaturale e insensata, dove la costante più terribile è un perpetuo processo alle intenzioni, che a poco ha finito per sfinirmi, distraendomi dalle mie pratiche preferite e dal lavoro di ufficio.
È per questo motivo che all’inizio ho fatto di tutto per ripiegare su una relazione, come dire, piuttosto epistolare che altro, più gestibile considerando la mia attitudine alla scrittura. All’inizio, mi si creda, non era mia intenzione: e perché mai avrei dovuto desiderare una cosa del genere? Che esclude oltretutto i piaceri carnali? No, presto l’ansia e l’angoscia di incontri faccia a faccia mi hanno dato la spinta definitiva a dedicarmi a una relazione documentale, fredda e distaccata, quasi rigorosa, delle nostre monotone giornate d’ufficio. In questo modo, oltretutto, mi riusciva più facile produrre le mie difese dalle accuse subliminali di Felice. Per di più, l’irregolarità di consegna delle poste, o il ricorso a una tale scappatoia, mi ha permesso di procrastinare a piacimento, e a mio vantaggio, le questioni che restavano in sospeso.
E per un po’, ammetto, come tecnica ha funzionato, specie quando le ho chiesto di scrivermi meno: Massimo una volta alla settimana! – le ho scritto in una lettera. Sicché poco mi ci è voluto per annoiarmi definitivamente di lei e desiderare di tornare scapolo a tutti gli effetti. Ma ecco che quando Felice tardava nel darmi risposta, o non rispondeva proprio alle mie lettere, mi prendeva una sensazione angosciosa d’aver commesso uno sbaglio da qualche parte, sbaglio che, se c’era, non m’era dato di saperlo, facendomi così ripiombare addosso l’ombra di un tribunale, di cui Felice era il giudice incapace di rivolgermi un’accusa in particolare.
In simili condizioni, la dimensione di incertezza in cui vivevo divenne perfino peggio dell’altra!
In conclusione – era il luglio 1914 – fattomi coraggio, ho scritto un’ultima lettera allo scopo di mettere fine al fidanzamento; nella quale, in sostanza, e per sbrigarmela in poco tempo, gliel’ho messa sul piano delle mie priorità (il lavoro e l’ufficio) e della salute (ho finto d’aver contratto la tubercolosi).
Due anni prima, la sera del 13 agosto 1912, quando io e Felice ci siamo incontrati per la prima volta a casa dei Brod, osservando meticolosamente la dentatura tanto magnetica quanto guasta e poco decorosa di Felice, non mi accorsi di ciò che la stessa avrebbe significato per me tempo dopo: un dente sì e un dente no riproducevano ai miei occhi le sbarre rilucenti di un carcere che mi avrebbe seguito dappertutto, e rinchiuso, in un certo senso, al di fuori.

Sul diario ho scritto in un angolino: Ogni donna è un tribunale imperscrutabile; il fidanzamento è un continuo processo alle intenzioni.
Queste sono le tremende leggi su cui voglio basare il mio nuovo romanzo.

Franza Kafka

[Francesco Marsibilio]

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