Senza chiedere permesso

Ho capito che qualcosa non andava quando mi hanno fatto notare un articolo di Gramellini sullo sgombero del Làbas. Che anche Gramellini si occupi di sgomberi e centri sociali in una rubrica del Corriere intitolata Il Caffè è abbastanza singolare, che lo faccia per dire che lo sgombero andava evitato è fatto degno di nota. In realtà non dice proprio così, che lo sgombero andava evitato, dice che non era la priorità. In realtà non dice proprio così, che lo sgombero non era la priorità, dice che le priorità dello Stato sono distanti da quelle dei cittadini. Cuor di leone, il Gramellini.
A questa conclusione poi non arriva sulla base di informazioni raccolte direttamente, verificate e quindi valutate nell’ottica dell’articolo. A questa conclusione arriva grazie alle voci del quartiere. Quali? Ad esempio la voce di una donna normale, «una piccola commerciante, che né nell’abito (pulito) né nel linguaggio (chiaro) tradisce parentele con i radical chic o con i ragazzi del centro, che continuano a esprimersi nello stesso italiano sociologico e indecifrabile dei padri sessantottini».
Si sente lontano un chilometro la puzza di ipocrisia da benpensante. Gramellini, infatti, non rinuncia a dire che «la proprietà privata va fatta rispettare persino quando i suoi detentori la lasciano andare in malora», ma aggiunge che se il centro sociale è «buono» (in questo caso le virgolette sono sue), allora le istituzioni dovrebbero avere altre priorità che non lo sgombero.
Penso si sia capito che non condivido una virgola di quello che dice Gramellini. Purtroppo, anche se in modo più articolato, in molti hanno manifestato contrarietà allo sgombero mettendo al centro del ragionamento assunti assimilabili a quelli di Gramellini: 1) il Làbas era un centro sociale buono, 2) le istituzioni potevano dedicarsi ad altro e lasciare in pace gli animatori di un luogo al servizio del quartiere.
Ovviamente nutro qualche dubbio sulla capacità di Gramellini di qualificare come buono (sempre indirettamente, sia chiaro) un centro sociale. Un centro sociale, nell’ottica dei Gramellini, è buono se mette in piedi una pizzeria biologica o un mercatino a chilometro zero, se è frequentato dalle signore che né nell’abito (pulito) né nel linguaggio (chiaro) tradiscono parentele con i radical chic o con i ragazzi del centro.
Ecco, a me questa idea di «bontà» non piace. E, potrei sbagliare, non piace nemmeno ai «ragazzi» del centro. «Ragazzi» perché, nell’idea di Gramellini, gli occupanti sono senza dubbio giovani scavezzacollo che prima o poi diventeranno maturi e smetteranno di esprimersi nel linguaggio indecifrabile dei padri sessantottini.
Detto ciò, devo ammettere che l’idea di chiedere alle istituzioni di far finta di niente è più sofisticata e scaltra dell’idea di chiedere alle istituzioni di prendere atto e, conseguentemente, legittimare un’occupazione. Primo perché la legittimazione proveniente dalle istituzioni, in sé, è incompatibile con l’idea di occupazione. Secondo perché, una volta legittimata, l’esperienza del centro sociale (non più occupato) viene normalizzata e, giocoforza, assoggettata alle regole su cui si basano le istituzioni e, per estensione, su cui è basata la nostra convivenza democratica. Tant’è che alcuni protagonisti di eccellenti esperienze del passato, nate da occupazioni e terminate con sgomberi (nel mezzo: l’organizzazione di validissimi eventi culturali nonché di sacrosante iniziative di lotta e contestazione) hanno di recente ricordato tutti gli interventi di polizia con cui si è conclusa l’azione di molti collettivi ed enumerato le poche realtà sopravvissute sì, ma pagando il fio della normalizzazione.
Cosa c’è di male nella normalizzazione? Nulla, salvo che – per fare un esempio – buona parte delle iniziative a sostegno di migranti e senzatetto necessiterebbero di qualche aggiustamento: quanti posti letto sono ammessi in un dormitorio di una certa grandezza? lo spazio è a norma? gli standard igienici sono rispettati? il senzatetto ha il permesso di soggiorno oppure è un clandestino? Non so esattamente come funzionasse il dormitorio del Làbas, credo però che l’unica (sensatissima) finalità fosse quella di dare un tetto a chi un tetto non ce l’ha. A prescindere. A prescindere dall’essere o meno in regola.
Non so, forse sbaglio. Dalle ultime notizie circolate sugli organi di stampa sembra che il Comune (Merola) e il Làbas avessero in corso una trattativa riservata (riservata?) per trovare una soluzione logistica alternativa. Sembra anche che la trattativa proseguirà. Se questo è vero, allora una legittimazione è in qualche modo richiesta dai diretti interessati. Non so.
Quello che so è che tutta la vicenda è un’occasione per riflettere sulla città che stiamo contribuendo a costruire. Una città che, secondo alcuni, avrebbe perso totalmente il senso della comunità, tanto da accettare la chiusura di spazi condivisi (com’era il Làbas) per la realizzazione di progetti immobiliari tanto più odiosi in quanto rientranti in opere di edilizia residenziale di lusso. A detta del sindaco il passaggio della caserma Masini (dov’era il Làbas) alla Cassa Depositi e Prestiti, che ha poi richiesto lo sgombero, è avvenuto nell’ambito di un più ampio piano di dismissione di immobili che prevedeva, in altre sedi, la realizzazione di zone verdi, aree destinate ai servizi sociali e via dicendo. Non so con quali interlocutori abbia parlato l’Amministrazione di Bologna per l’elaborazione di questo piano, ma è proprio lì, in quel momento e in quella sede che si dovrebbe realizzare una parte fondamentale della cosiddetta “dinamica politica”, è in quell’opera di coinvolgimento e ascolto, negoziazione e scontro, collaborazione e informazione che dovrebbe risiedere l’essenza della gestione della res pubblica.
E quel che non può e non vuole rientrare in questa dinamica?
Penso sia questo il nodo centrale della questione. Occorre domandarsi se quel che si sottrae volontariamente a questa dinamica politica abbia poi comunque il diritto di interagire con le istituzioni (magari in via riservata?) e, se sì, in che forme. A quanto mi è parso di capire, la maggior parte delle persone che si sono interessate allo sgombero del Làbas non solo ritiene che questo diritto esista a vada tutelato, ma che anzi sia preciso dovere delle istituzioni farsi carico della sopravvivenza di iniziative analoghe o, come direbbe Gramellini, di iniziative «buone». Solo che, mi domando, chi stabilisce cosa è buono e cosa non lo è? sulla base di quali criteri? Di logica, visti i presupposti (ossia che il sindaco debba farsi carico di trovare gli spazi), è proprio l’amministrazione comunale che esprimerà tale giudizio. Se non altro come una delle parti in causa.
Ebbene, non faccio fatica ad esprimere l’auspicio che a Bologna vi siano sempre più spazi destinati dalle istituzioni ad iniziative di aggregazione spontanea capaci di esprimere cultura e generare esperienze di reale utilità sociale, meglio ancora se a vantaggio di chi più ha bisogno di aiuto. Ma ancor di più sento il desiderio di vivere in una città in cui edifici inutilizzati da tempo vengano occupati, senza il permesso di nessuno, da persone che, in questo modo, non solo realizzano il primo passo verso la creazione di futuri Làbas, ma più di ogni altra cosa mettono in discussione le istituzioni, si oppongono a loro, le contestano, costringono la cittadinanza a fare i conti con le sue imprescindibili contraddizioni. Perché è solo grazie a questa dialettica/scontro che il rapporto fra cittadino e istituzione può evolvere, spingendo il cittadino a guardare in faccia il problema, perfino mettendosi nei panni delle istituzioni (anche questo è far politica), e costringendo le istituzioni a considerare come propri interlocutori anche soggetti che non hanno la forma di partiti, associazioni o lobby, che non sono accondiscendenti, che contestano, che forse non votano o votano altro (anche questo è far politica).
Il che, mi sembra, è cosa un po’ diversa dal desiderare una città “normalizzata” o dal limitarsi a chiedere all’Amministrazione di girare la testa da un’altra parte. Una cosa diversa, in altre parole, dal chiedere il permesso.

Mauro Orletti

3 commenti

  1. Mario Mastrocecco

    l’articolo del compagno Orletti rappresenta anche il mio punto di vista ed è l’esito di una discussione molto più lunga di una chiacchierata da bar.
    Più di venti anni fa’ eravamo al liceo. Avevamo fatto un gruppetto che ancora non osava chiamarsi collettivo ma volevamo protestare. Scrivemmo un volantino per il diritto allo studio e per denunciare il fatto che non c’erano mense e residenze per studenti all’università di Chieti. Andammo in delegazione a una riunione con il Collettivo degli studenti universitari, nella loro aula occupata. Ci sentivamo importanti perché loro erano come ci immaginavamo che dovevano essere “i ragazzi dei centri sociali”. A Chieti allora non c’erano centri sociali e noi non fumavamo nemmeno le sigarette. Ci spiegarono per un paio d’ore che la negazione del diritto allo studio è conseguenza della società divisa in classi e tutto dipende dal capitalismo. Poi uscimmo e noi dovevamo attaccare il nostro volantino sui muri dell’università. Ci dissero che potevamo farlo solo nella bacheca, perché sui nuovissimi muri di cemento armato della nuovissima università l’affissione era vietata. Vagammo un po’ per i corridoi, poi il compagno M.T. tirò fuori lo scotch e disse “oh, ma mo ch’adema cercà lu permess pe fa la rivoluzione?” . Tappezzammo la facoltà coi nostri volantini e ce ne andammo.

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  2. Adriano

    Due osservazioni al volo.
    Gramellini fa di mestiere l’opinionista, non il cronista. Sono due funzioni giornalistiche diverse e separate e in Paesi mediaticamente più evoluti del nostro c’è una rigida separazione di funzioni con tanto di incompatibilità ben regolamentate. Lamentarsi del fatto che Gramellini scriva sulla base non di informazioni raccolte direttamente e verificate, ma sulla base di informazioni di seconda mano non ha senso. In molti grandi giornali internazionali al giornalista che ha raccolto direttamente le informazioni sarebbe vietato scrivere editoriali di opinione sulle stesse.
    Ciò detto, l’affermazione secondo la quale «la proprietà privata va fatta rispettare persino quando i suoi detentori la lasciano andare in malora» è di una ovvietà assoluta. E’ altrettanto vero che le istituzioni locali dovrebbero sostenere e favorire esperienze di socialità, di aggregazione spontanea e di costruzione comunitaria, ma questo dovrebbe essere fatto attraverso percorsi di legalità e di condivisione e non attraverso la pratica del conflitto permanente.
    E veniamo al nodo centrale della questione. Ti chiedi se è lecito sottrarsi volontariamente alla “dinamica politica” del confronto e della negoziazione con le istituzioni e scegliere la pratica dello scontro sistematico e della scelta metodologica di rifiutare la “normalizzazione” e le condizioni che questa comporta, ad esempio rivendicando orgoglisamente la pratica della occupazione di spazi e rifiutando la via dell’ottenimento di spazi in concessione.
    Questa è una materia che va trattata con cura, perché i confini sono labilissimi. Gli strumenti di disobbedienza civile sono importanti in democrazia, in alcuni casi persino vitali, perché creano evoluzione e innescano dinamiche di ripensamento. Ma siccome è altrettanto vero che è giusto e importate che una comunità si dia delle regole e che queste siano rispettate, la disobbedienza civile, il rifiuto di chiedere il permesso è uno strumento che andrebbe usato con il contagocce.
    In questa vicenda di Rosa Parks non ce ne sono. Nessuno ha mai pensato che il Labas dovesse chiudere e sparire dalla faccia della terra e nessuno ha mai negato il valore di questa esperienza. Semplicemente l’area che attualmente occupa ha un proprietario e una destinazione d’uso differente. Il Comune aveva cercato delle soluzioni alternative e aveva offerto dei locali in via Porto (uno spazio di 600 mq in zona periferica), che il Labas aveva rifiutato. Scelta comprensibile, visto che lo spazio che occupavano era centrale e grande dieci volte tanto. Merola riferisce che i responsabili del Labas hanno risposto che “Cassa depositi e prestiti deve adeguarsi alla situazione ormai consolidata”.
    Francamente questo è un tipo di pratica politica con la quale faccio fatica a simpatizzare.
    Oltretutto, la ex casema Masini (palazzo storico di 9.000 mq in zona centrale) non è di proprietà di qualche fondo finanziario di investimenti ad alto rischio, ma della Cassa Depositi e Prestiti, una istituzione finanziaria a prevalente capitale pubblico che ha come funzione quella di fare prestiti a basso tasso di interesse a pubbliche amministrazioni e a imprese italiane e che da quell’immobile programma di ricavare non meno di una trentina di milioni di euro. Non si tratta esattamente di una speculazione finanziaria.

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