Sui Carpazi, al valico della Transfăgărășan, ho sistemato la macchinetta per un autoscatto. Siamo in due, di spalle, guardiamo verso il lago Bâlea. Guardando la foto, l’amico che è con me commenta: «questa foto insegna che il mondo non esiste, il mondo non è vero». Perché siamo in posa e questa posa falsifica tutto: il mondo che abbiamo davanti, e guardiamo, e quello che abbiamo dietro, e ignoriamo.
Questa affermazione presuppone l’impossibilità di gettare uno sguardo romantico sulla realtà, uno sguardo che colga, a un tempo, ciò che abbiamo dentro e ciò che è fuori di noi. Secondo C. D. Friedrich: «Il pittore non dovrebbe dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede dentro di sé. Se dentro di sé non vede nulla, allora eviti anche di dipingere ciò che vede davanti a sé». Tutti i personaggi dipinti da Friedrich sono in posa, il “Viandante sul mare di nebbia”, il “Monaco in riva al mare”, il “Cacciatore nella foresta”. E tutti di spalle, rapiti dalla contemplazione del paesaggio, persi nell’inutile tentativo di dare un senso all’infinito e quindi preda di quel sentimento – tipicamente romantico – che la lingua tedesca riassume nella parola sehnsucht.
La sehnsucht è lo struggimento che si prova quando non è possibile raggiungere l’oggetto del desiderio. Quindi lì, sui Carpazi, al valico della Transfăgărășan e di fronte al lago Bâlea, ho sistemato la macchinetta per un autoscatto e questo autoscatto, ecco, non parla di un mondo inesistente ma di un mondo irraggiungibile. E ciò che adesso mi sembra interessante non è nemmeno quel mondo irraggiungibile lì, verso il quale guardiamo, ma questo mondo qua, a portata di mano, su cui poggia la macchinetta fotografica, il mondo dal quale arriva l’autoscatto.
Infatti guardando la foto, e guardando me stesso nella foto, penso a un sacco di cose e fra l’altro a “L’uomo della folla” di Edgar Allan Poe in cui c’è un uomo che sta seduto al tavolo di un bar e da lì osserva i passanti. E poi, un bel momento, dalla folla gli appare un tale e lui decide di seguirlo. Così si mette a pedinarlo e gli resta incollato per un giorno e una notte e alla fine si ritrova vicino al bar dov’era seduto senza aver scoperto nulla dell’uomo della folla. Verrebbe da concludere che, come il paesaggio romantico, anche l’individuo è inconoscibile e irraggiungibile.
È bello pensare che Edgar Allan Poe abbia scritto questa storia al tavolo di un bar. E bisognerebbe tenere a mente l’opera n. 17 di Learco Pignagnoli: «Tutti credono che Edgar Allan Poe fosse un alcolizzato e che sia morto di delirium tremens a causa delle sue bevute. Invece non è vero. Edgar Allan Poe aveva un’allergia all’alcol, tanto che gli bastava un mezzo bicchiere per essere già ubriaco. E certa gente di Baltimora faceva apposta a chiamarlo dentro un bar per sentirlo straparlare».
Dopo, secondo me, dentro quel bar dev’essere capitato anche Nataniel Hawthorne e lì deve aver letto su un giornale la storia di quell’altro uomo, Wakefield, che, col pretesto di partire per un viaggio, esce di casa e – senza motivo – resta via per vent’anni. Però, all’insaputa della moglie e degli amici, va a vivere in una strada lì vicino dalla quale può osservare ciò che accade in casa sua. Finché, e ancora una volta senza ragione apparente, mette fine all’esilio. E Hawthorne mette fine al racconto lasciando Wakefield sulla porta e il lettore a guardarlo di spalle. Poi lui si gira e sul volto compare «quel furbesco sorriso che aveva anticipato l’innocente burla» durata vent’anni.
In quel momento è come se ci fosse una totale convergenza fra il punto di vista di Hawthorne, di Wakefield e anche del lettore: per tutti e tre il mondo appare di spalle. Hawthorne segue Wakefield, Wakefield spia la moglie, il lettore pedina Wakefield fino alla porta di casa.
E mi sembra che non siamo molto lontani dalla teoria del pedinamento di Zavattini, dal suo invito a mettersi alle calcagna della realtà per esercitare la pazienza dello sguardo e cogliere, senza essere visti, la vita dell’uomo nella sua reale durata. «Il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa» diceva Zavattini.
Perché tutto può essere visto dal davanti ma anche di spalle, come nell’autoscatto sui Carpazi, al valico della Transfăgărășan, come nei racconti di Poe e Hawthorne, come nella teoria del pedinamento di Zavattini. Come nelle foto di Edouard Boubat. Che infatti pubblica un libro, con i testi di Michel Tournier, intitolato “Vues de dos”. E lì, ad esempio, si dice che: «Tout est dans la façade. Mais l’envers? Mais l’arrière? Mais le dos? Le dos ne sait mentir…». Non sa mentire. Il che vale per i paesaggi, le città e le persone. Guardando la bimba ritratta di spalle in “La petite fille aux feuilles mortes” Tournier resta affascinato dall’abito di foglie che indossa. Di una goffaggine commovente, dice. Sembra infatti che la bimba attenda il momento in cui si trasformerà in una creatura fantastica, venuta da un mondo inconoscibile e irraggiungibile. E Tournier dev’essersi commosso sapendo che non succederà, non si trasformerà. Deve aver provato qualcosa di molto simile allo struggimento, alla sehnsucht. La stessa che si può evocare, di spalle, in un autoscatto, la stessa che può evocare, di spalle, l’irraggiungibile oggetto del desiderio. In fondo aveva ragione Boubat, che in una frase del suo taccuino aveva annotato: «Dio si presenta di spalle».

Non esisteva il laghetto nè le cime dei monti Carpazi, nè l’asfalto della transfagarasian e neppure il cielo e il vento come non esistono i deserti in cui sei scappato tante volte più di quanto esista il davanzale della mia cucina. Esistevano due uomini che guardavano e pensavano e nel loro pensare e parlare tra loro hanno creato tutto. E nel mostrare la foto ai loro amici hanno creato la realtà di quel posto anche per i loro amici ancorchè essa consista in un foto di due uomini che guardano un lago. Fanno finta di guardare un lago. E la differenza fra il fingere e il creare è forse ciò in cui si esalta il pittore e si ubriaca lo scrittore.
E questa è l’unica verità che il tuo amico barocco ti può dire.
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Cioè, cioè: adesso tutti quelli che si fanno un selfie devono scrivere un trattato apologetico di questo genere? Magari, che non se ne vedrebbero più molti in giro.
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