E così domenica fuggo, prendo l’autostrada con i finestrini abbassati, mi rifugio a Fusignano. Nell’ex ospedale di San Rocco è allestita una mostra fotografica dal titolo “Abitare il deserto” ed è lì che sono diretto. È di questo che ho bisogno. Del deserto.
Espongono nove fotografi. Il curatore della mostra, Giovanni Zaffagnini, ha chiesto loro di riflettere sulla possibilità di “riconciliazione col mondo circostante”, in particolare con quella parte di mondo che chiamiamo deserto. La domanda richiama esplicitamente una mostra organizzata nel 1986: “Traversate del deserto” (dietro la quale c’era sempre lo zampino di Zaffagnini). A cimentarsi col tema, allora, Luigi Ghirri, Olivo Barbieri, Guido Guidi, Carlo Gajani, Vittore Fossati, Jean Paul Curnier, Klaus Kinold, Paul David Barkshire, Manfred Willmann. Nel catalogo che accompagnava la mostra scritti memorabili di Giorgio Agamben, Jean Baudrillard, Gerald Bisinger, Gianni Celati, Jean Paul Curnier, Max Frisch, Gabriel Josipovici, Gilles Lipovetski, Giuliano Scabia.
E così, prima di mettermi in viaggio, riapro “Traversate del deserto”. Nel 1986 ho nove anni. Ancora non lo so ma il deserto è già vicinissimo. Questa prossimità permette a Max Frisch di accorgersi «fino a qual punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d’una piccola oasi, inverosimile come la grazia». Non ne ho consapevolezza, a nove anni, ma il deserto è sulla soglia di casa. In futuro dovrò trovare il coraggio di oltrepassarla, di uscire nel mondo, e lo spazio che mi troverò davanti sarà inevitabilmente vuoto. Un vuoto nel quale impulsi diversi, rifiuto e apertura, astensione e slancio creativo, troveranno equilibrio. Il deserto fuori dalla porta di casa è un deserto pieno di possibilità, come il vuoto della filosofia giapponese (mu), pieno di voci e silenzi. Il deserto è una promessa.
E così domenica fuggo, con il timore che sia già tardi, con il sospetto che alla fine sia successo qualcosa di terribile, quel che Celati immagina con orrore: la rottura dell’equilibrio. A forza di separare, a forza di distinguere le voci dal silenzio, il pieno dal vuoto, la «miseria incosciente» dalla ricchezza, ho confuso anch’io una cosa per l’altra, ho sostituito l’immaginazione con surrogati rappresentativi, inganni. E il deserto, che a nove anni ero disposto ad attraversare, è diventato un luogo da evitare, da combattere, qualcosa contro cui opporre un rimedio.
Domenica non ho più rimedi. E non ho più nove anni.
Entro nell’ex ospedale di San Rocco, a Fusignano, atterrito, ché la mia battaglia, forse, è già persa. Leggo il titolo della mostra, “Abitare il deserto”. Una provocazione? È così difficile attraversarlo… sarà mai possibile abitarlo?
Avessi al mio fianco Jean Baudrillard lo chiederei a lui, carovaniere di città, tuareg di spazi urbanizzati nei quali, liquidata ogni cultura, può circolare libero e senza riferimenti. Mi risponderebbe che le città sono la continuazione del deserto, la ripetizione in cui vivere l’inganno «ed esaltarsi con i riti dell’indifferenza». Indifferenza a cosa? Gli domanderei. Ai motivi, risponderebbe.
Chissà, forse non abbiamo mai avuto il coraggio di oltrepassare la soglia e il deserto è entrato in casa. Sicché da adulti, abbandonato ogni progetto di attraversamento, ci siamo rassegnati all’idea di abitare i deserti.
Nella Bretagna di Olivo Barbieri, nella Londra di Barkshire, nelle strade di Curnier, negli interni di Fossati, perfino nelle campagne di Gajani e nella Romagna di Guidi c’è solo una lieve traccia di esistenza, nulla più. Solo in Ghirri compaiono le persone, ma è come se fossero smarrite, sconnesse, alla ricerca permanente «d’una piccola oasi, inverosimile come la grazia».
Le foto attualmente esposte nell’ex ospedale di San Rocco, a Fusignano, raccontano la vita nel deserto, in modo esplicito. Sono generose e domestiche, perché mostrano il tentativo di rimettere insieme dopo che si è separato e distinto, restituire un motivo dopo che si è celebrato il rito dell’indifferenza ai motivi, immaginare rotte dopo che ci si è persi fra le dune. La domanda di Zaffagnini, ora lo so, non è una provocazione ma una constatazione. Davanti agli occhi dei visitatori si parano le vittime dell’inganno, intrappolate per sempre nel deserto, condannate ad abitarlo, ad abitare i condomini di Gavrich, le ricostruzioni di Caneve e i garage di Mascaro, condannate ad arredarlo con maioliche (Baldazzi), lenze, galleggianti (Baldrati), contenitori di paesaggi e di nulla (Parodi). Del tutto ignari dell’esistenza del deserto e, dunque, dell’esistenza d’un piccola oasi, inverosimile come la grazia.
Eppure.
Eppure è sufficiente averla incontrata, almeno una volta, per desiderarla in eterno. L’oasi, inverosimile come la grazia.
[Abitare il deserto, a cura di Giovanni Zaffagnini, Osservatorio fotografico 2016]