Adesso non sono sicuro di voler partire, mi assale la paura. Le stesse ragioni per le quali ho preparato la borsa, visto film e documentari, letto libri, disegnato itinerari, sono quelle per cui penso di voler restare. Una canzone dei Mercanti di liquore ha un verso che dice così: il viaggiatore viaggia solo e non lo fa per tornare contento. Non che mi consideri un viaggiatore, condivido però l’idea che il desiderio di partire non abbia nulla a che spartire con la voglia di tornare contento.
Ho sempre cercato di mettermi alla prova. Questa volta perché, in una giornata disastrosa, nel buio di un appartamento, ho visto nascere un cammello albino ai margini del deserto del Gobi. Ho visto un uomo suonare il suo igil durante una strana cerimonia e una donna cantare khoomii per fare in modo che la madre accettasse il puledro. E questa cerimonia ha funzionato ed io, in una giornata disastrosa fatta di esclusione e disprezzo, esclusione alla quale non ho saputo oppormi, disprezzo che ho ripagato con la stessa moneta, ho deciso che sarei andato a vedere con i miei occhi. E quanta poca contentezza ci sia in tutto questo, nel partire, nel tornare, è un fatto evidente.
Ero stanco. Ora non più, ora sono fragile. E il racconto dei cavalieri mongoli, di Temugin e di suo figlio Ögödei e di tutti gli altri figli del Kahn fino a Sukhbaatar, non mi interessano quanto mi interessa la morte di Arsylang, il cane del piccolo pastore nomade raccontato da Galsan Tschinang nel suo romanzo “Il cielo azzurro”.
Il cielo azzurro della Mongolia è un divinità: Tengger. Come ogni divinità, è dispensatrice di vita e di morte. Ogni affronto compiuto nei confronti di Tengger deve essere pagato e il prezzo è alto. Conviene accettare quel che il suo imponderabile giudizio ha stabilito, perché ciò che conta è la prateria e la prateria conta più di chi l’abita e Tengger difende la prateria. E nessun guerriero, neppure Gengis Kahn, osa opporsi. Eccezion fatta per un piccolo pastore nomade e la sua rabbia infinita per la morte del cane Arsylang. Una rabbia che neppure un milione di cavalieri mongoli potrebbe contenere.
Ero ferito. Pensavo che partire, guardare con i miei occhi il cielo azzurro, mi avrebbe aiutato a guarire. Ma Tengger è Tengger fintanto che deve occuparsi della prateria. Nel mio appartamento buio non ha potere, nel mio appartamento buio arriva solo la rabbia del piccolo pastore nomade. Che è uguale ovunque. E ci acceca. E dopo che è passata ci lascia fragili. Come se quella rabbia fosse l’unica corazza in grado di tenerci in piedi. Tolta la corazza si inizia a crollare.
E ci assale la paura.

Io non viaggio mai da solo, fuori dalla mia stanza
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Secondo me ti stai solo a caga’ sotto di volare con una compagnia russa su per i cieli dell’Ucraina. Ma è un mio parere personale. Il resto è tutto molto bello. Grande MaurOrlè!
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