Io incomincerò da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di meno è o virtù o cosa molto a virtù somigliante.
Giovanni Della Casa, Galateo overo de' costumi
Il titolo della mostra “Un Cinquecento inquieto, da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo” mi ha immediatamente attirato. Nell’offerta espositiva nostrana, sempre alla ricerca di nomi altisonanti, quello di Cima non sarebbe di grande richiamo. E forse, per quanto snob e sofisticati possano essere i visitatori, scoprire che la mostra annovera un’unica opera del pittore (il pur bellissimo trittico di Navolè) potrebbe essere una terribile delusione.
Invece no, perché l’esposizione, Cima, Conegliano e un ottimo baccalà mantecato possono riservare grandi sorprese.
Il trittico di Navolè è proprio all’inizio del percorso. La sua datazione è incerta: primi del ‘500, forse 1510. Sette anni dopo Cima morirà, neanche sessantenne, con un’impressionante numero di opere alle spalle: polittici, pale d’altare, madonne col bambino, sacre conversazioni e sangirolami nel deserto (addirittura sette). Scarsissime, invece, le notizie sulla sua vita.
Discorso completamente diverso per l’altro personaggio citato nel titolo della mostra, Riccardo Perucolo, della cui carriera artistica si sono conservate esilissime tracce. Molto sappiamo, al contrario, della sua biografia. Tutto merito del processo per eresia cui viene sottoposto.
La marca trevigiana, all’inizio del sedicesimo secolo, è in fermento. Il 1510 è l’anno della morte della signora di Asolo Caterina Cornaro, che alla sua corte chiama a lavorare Giorgione, Lorenzo Lotto e il cardinal Bembo. A Susegano, intanto, nel castello dei Collalto, operano il Pordenone e Francesco da Milano. Entrambi, fra l’altro, presenti nella mostra: il Pordenone, con una tempera su tavola (“Trasfigurazione”) dalle tinte – solo quelle a dire il vero – giorgionesche; Francesco da Milano, con un affascinante trittico su tavola (“San Sebastiano, San Rocco e San Nicola”) di gusto decisamente nordico, tant’è che nello scomparto del San Sebastiano emergono citazione precise di stampe düreriane. E lo stesso Dürer è presente alla mostra, con meravigliose xilografie collocate proprio di fronte alle incisioni di Martin Schongauer, anche queste capolavori che da soli varrebbero il biglietto della mostra.
Ora, la tavola di Francesco da Milano porta a riflettere su un particolare interessante della pittura di Cima. Il quale, anziché trarre ispirazione dal gusto di altri artisti, anziché elaborare paesaggi immaginari e città ideali, sceglie un realismo totale. Nelle sue opere (penso ad esempio alla “Sant’Elena” conservata a Washington) il paesaggio viene riprodotto con precisione da cartografo e le madonne, i bambini e i santi vengono immersi in uno sfondo preciso in cui Conegliano e la campagna d’intorno sono perfettamente riconoscibili.
È questa la riforma visiva con cui Cima trasforma il paesaggio: non più semplice sfondo, ma elemento chiave di quel dialogo col sacro in cui si manifesta l’immanenza del divino. Di lì a poco divamperà la Riforma luterana (le 95 tesi sono del 1517): la mediazione della Chiesa nella comprensione delle Sacre Scritture verrà giudicata superflua e la grazia divina verrà messa al centro del dialogo con l’uomo. Le Sacre Scritture, in un certo senso, torneranno ad essere il luogo in cui si esprime l’immanenza del divino.
Non è questa, ovviamente, la lettura del Sant’Uffizio di Venezia. Città nella quale arriva, in qualità di nunzio apostolico, Giovanni della Casa, che tutti conoscono per il Galateo e che invece andrebbe ricordato per l’introduzione in Veneto del tribunale dell’Inquisizione. Che non tarda ad occuparsi delle presenze “riformate”, come quella del vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio.
Quest’ultimo viene denunciato per eresia proprio al nunzio di Venezia. È il dicembre del 1544. Convocato dal Consiglio dei dieci a Venezia, città che in qualche modo lo ha sempre difeso, Vergerio continua con la propaganda filo-protestante perdendo così anche l’appoggio del governo cittadino. Alla fine è costretto a fuggire in Svizzera, dalla quale continua a diffondere tesi anti cattoliche attraverso opuscoli e libri. Materiale che finisce puntualmente nell’Indice veneziano dei libri proibiti pubblicato dal solito Giovanni Della Casa.
In ogni caso la propaganda di Vergerio attira umanisti, intellettuali, artisti. Fra i quali, appunto, Riccardo Perucolo. L’atteggiamento molto tollerante della Serenissima ha reso il Veneto terreno fertile per il dissenso religioso. Sono molti i predicatori che forniscono interpretazioni nuove e originali dei testi sacri, anche a Conegliano. E su tutti questi predicatori aleggia l’influenza del vescovo apostata Pier Paolo Vergerio. In questo clima inquieto anche Perucolo rifiuta la mediazione ecclesiastica nell’interpretazione delle Scritture, legge le trasposizioni in volgare accessibili a quel tempo, si mette a ragionare su trinità, libero arbitrio, grazia, ruolo dei santi.
E un giorno, mentre lavora a un affresco nella loggia del Podestà, comincia a discutere dei santi che sta dipingendo e del loro significato. E lo fa senza troppe cautele. Alvise Tagliapietra, l’allora podestà, non può che arrestarlo e interrogarlo.
«La mia profession – gli dice Perucolo – è di depenzer, ma fazo de ogni cosa come el marangon et muraro perché coglio a far delle fazade de case per poter viver».
Il pittore-muratore viene mandato al tribunale del Sant’Uffizio di Venezia con l’accusa di luteranesimo. Il cancelliere del tribunale lo descrive «uno iovane scarmo picolo, con pocha barba, vestito con uno vardacuor pavonazo rosso et con la bareta e le foze».
Questo giovane scarno e piccolo, al quale sono state sequestrate le edizioni in volgare di Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, Epistole di San Paolo, nonché un volume delle Metamorfosi di Ovidio, dichiara all’inquisitore: «Mi so lezer un pocho volgar e scrivo molto mal».
Viene imprigionato nei “pozzi” di palazzo Ducale e qui fa in tempo a lasciare, nella cella X, un graffito raffigurante, guarda caso, proprio dei santi. In cambio di uno sconto sulla pena si rivolge infatti al Consiglio dei dieci offrendosi di affrescare la volta della cella, destinata a diventare l’infermeria della prigione.
Il progetto non va in porto ma nel 1549, dopo aver abiurato, il tribunale ecclesiastico lo rilascia e gli permette di tornare a Conegliano. Gli viene però imposto di presentarsi nella chiesa di San Francesco, indossando una veste gialla e una corda di canapa al collo, per ripetere l’abiura durante la “messa grande”. E anche se l’umiliazione deve ripetersi per 18 mesi, la pena è – tutto sommato – mite.
Fatto sta che il Sant’Uffizio, grazie all’impulso di papa Paolo III (a Roma) e del nunzio apostolico Giovanni della Casa (a Venezia), è diventato una macchina assai efficiente e macina processi e condanne, a Roma come a Venezia. Ma se nelle grandi città – e a maggior ragione nella capitale – si evitano, per convenienza politica, i roghi pubblici, nei piccoli centri si levano alte le fiamme purificatrici dell’Inquisizione.
Conegliano non fa eccezione. Allora nel 1567, quando vengono intercettati opuscoli di propaganda anticattolica, Perucolo è il primo nella lista dei sospetti. Viene arrestato e condannato come recidivo.
Qualche mese dopo il podestà di Conegliano scrive al Sant’Uffizio di Venezia: «d’haver fatto abbrusciare publicamente Ricardo pitor con molta satisfatione del populo et molta edificatione».
Non è rimasto quasi nulla dell’opera di Perucolo, a parte gli affreschi monocromi di palazzo Sarcinelli, dove è organizzata la mostra, che però dicono poco o nulla del suo valore: da un punto di vista linguistico c’è ben poca riforma e molto galateo pittorico. Se di eresia (anche) estetica si vuol parlare, bisogna tralasciare i fanti e tornare ai santi. Perché lì, nella cella X di Palazzo Ducale, come ha intelligentemente osservato Giandomenico Romanelli (Il pittore prigioniero, Marsilio 2014), i santi raffigurati sono vittime di una sofferenza fisica che è anche un disagio morale, una crisi spirituale che non ridimensiona il loro valore simbolico ma soltanto la loro capacità di compiere miracoli.