“L’evoluzione del gruppo fa leva su valori consolidati e sull’acquisizione ed il miglioramento delle capacità innovative e gestionali in tutte le aree, dalle tipologie di prodotto ai livelli di servizio alla clientela, dalla tecnologia produttiva alla finanza, dal marketing all’efficienza generale delle strutture.
In particolare, viene considerata prioritaria la creazione, a tutti i livelli, di una visione del business in chiave strategica e di un crescente orientamento al mercato.”
Bisognerebbe chiedere a Nerino Grassi cosa intende esattamente con “miglioramento delle capacità gestionali” ed “efficienza generale delle strutture” visto quello che sta accadendo allo stabilimento OMSA di Faenza. Perché io, sinceramente, “la visione del business in chiave strategica” non la vedo.
Le frasi da piccolo capitalista, così amate da certa imprenditoria italiana, sono qualcosa di demenziale. Sul sito della Golden Lady c’è chi ha avuto il coraggio di trascriverle. Forse un hacker, chissà.
Nerino Grassi è il creatore del gruppo Golden Lady, del quale OMSA è entrata a far parte nel 1992. Suo fratello, Arnaldo Grassi, ha rilevato il marchio OMSA nel ’78 dalla famiglia forlivese degli Orsi Mangelli (che lo aveva fondato 37 anni prima). Nel 1990, l’azienda passa da Arnaldo a Nerino. Le cose vanno a gonfie vele, la fetta di mercato cresce, accanto alla Omsa arrivano Sisi, Filodoro, Philippe Matignon, Goldenpoint… trovate i marchi tutti belli allineati sul sito “Golden Lady”.
Oggi il gruppo ha 15 stabilimenti in Europa e 4 negli Stati Uniti, produce 300 milioni di calze all’anno, assorbe una fetta superiore al 50% del mercato nazionale ed esporta in tutti i principali mercati europei. E la OMSA?
“Esperta, cresciuta e sempre più apprezzata, OMSA comincia ad essere sempre più vicina alle donne di ogni paese, grazie alla sua presenza sui mercati internazionali. Facilitata dalla qualità dei suoi prodotti, OMSA allarga la sua diffusione in modo capillare e mirato, dall’Italia, all’Europa, fino ai mercati mondiali, chiamando come sue nuove interlocutrici le donne di tutto il mondo.” (dal sito http://www.omsa.com).
Non hanno neppure il coraggio di scrivere le cose come stanno. “OMSA allarga la sua diffusione in modo capillare e mirato, dall’Italia, all’Europa, fino ai mercati mondiali”. Si direbbe che anche in Italia la presenza di OMSA si allarghi e rafforzi. Invece no. La frase corretta sarebbe: dall’Italia alla Serbia (senza virgole) chiamando sue nuove interlocutrici le donne di quasi tutto il mondo (quelle di Faenza sono escluse).
Si comincia a febbraio 2009: cassa integrazione ordinaria per i 350 dipendenti OMSA, di cui 320 donne. Poi, e siamo a gennaio 2010, la notizia della chiusura definitiva dello stabilimento. “Una scelta obbligata per abbattere i costi”.
Quali costi bisogna abbattere in un’azienda che non è mai entrata in crisi? La OMSA è sana e produttiva, ma la proprietà ha deciso: bisogna chiudere lo stabilimento di Faenza per aprirne un altro, il terzo, in Serbia. Naturalmente non ha mai pensato di informare sindacati, lavoratori, parti sociali. Lo hanno scoperto tutti leggendo i giornali, leggendo di un accordo fra la dirigenza aziendale ed il ministro dell’Economia serbo. Si chiude un’azienda italiana, un’azienda sana, un’azienda di 350 persone, senza che nessuno, nemmeno il Ministero, possa aprir bocca.
Se una crisi c’è, è una crisi di valori e di idee.
“Il successo dell’azienda è frutto di un insieme eterogeneo di fattori:
– superiorità tecnologica, automazione e verticalizzazione
– importanti investimenti pubblicitari e di marketing
– gestione efficace dei rapporti con il mercato distributivo
– capacità di percepire e tradurre in pratica, in modo rapido, le necessità di cambiamento del mercato.” (dal sito Golden Lady)
Ma com’è possibile? Come si può permettere che un’azienda che funziona e dà lavoro, un’azienda che fa ormai parte del tessuto sociale (la OMSA esiste da 71 anni), delocalizzi senza problemi, senza nemmeno assumersi la responsabilità di ragionare del futuro delle lavoratrici che per anni hanno prestato servizio nello stabilimento di Faenza?
“Quante donne sei? chiede il titolo della campagna pubblicitaria 2002-2004. Una domanda che vuole sottolineare questo vissuto, che fa di ogni donna, ogni giorno, una donna diversa. Ciascuno dei soggetti della campagna rappresenta un particolare modo di essere donna espresso pienamente da un prodotto Omsa”. (dal sito OMSA)
Quante donne sono? Almeno 320. E molte di queste, fra i “particolari modi di essere donna”, hanno scelto quello dell’operaia che presidia 24 ore su 24 i cancelli della sua fabbrica, per evitare che qualcuno venga a prendere i macchinari e li trasferisca in Serbia.
Una lotta operaia come questa, però, avrebbe bisogno dell’appoggio delle istituzioni. L’amministrazione locale però è immobile e – fatta eccezione per un ordine del giorno a favore delle dipendenti Omsa, approvato all’unanimità dal consiglio comunale – non s’è visto niente di concreto. Nel mese di marzo (a ridosso delle elezioni) il cinismo della politica ha perfino materializzato Bersani ed Errani nei luoghi della protesta.
Quindi, il vuoto siderale. Tavoli, incontri, confronti e trattative che nessuno si è mai sognato (o ha avuto la forza) di far rispettare. Gli accordi si firmano, naturalmente, ma la OMSA non li rispetta. A gennaio 2011 se ne sottoscrive un altro. Questo qui prevede la riconversione dell’impianto, la nomina di un advisor che trovi i compratori, l’impegno dell’azienda a non chiudere il reparto tessitura (l’unico ancora attivo). Passa un mese e la dirigenza si rimangia tutto. O quasi. Restano i 30.000 euro (lordi) destinati alla mobilità per 80 dipendenti. I sindacati li considerano “la base di partenza di una nuova azione volta a concretizzare un piano di riconversione industriale che sia in grado di ricollocare i lavoratori dello stabilimento”.
Intanto, il 21 marzo, OMSA chiude il reparto tessitura. Con tempismo perfetto comincia la distribuzione degli incentivi alla mobilità. Venghino venghino! Le prime 80 persone a fare domanda di licenziamento avranno 23.000 euro e rotti (netti) da spalmare su un periodo che varia a seconda dell’anzianità del lavoratore.
“Perché Omsa sa tutto di te. Tra la consumatrice e la marca si stabilisce così un’affinità elettiva. Denominatore comune: la stessa femminiltà sincera e libera. Autentica e unica, proprio come le calze Omsa.” (dal sito OMSA)
La OMSA saprà anche tutto delle consumatrici, ma non sa niente delle donne, niente delle lavoratrici, niente delle sue operaie. Che dopo anni di servizio devono subire l’onta di passare 24 ore sotto la pioggia per garantirsi un posto nella lista di mobilità, per farsi licenziare.
Nessun rispetto. Nemmeno per chi decide di restare.
Dopo l’onta anche la beffa: il direttivo Cgil rimuove il coordinatore faentino Idilio Galeotti (lasciato senza incarico) ed il suo posto viene affidato a Roberto Martelli. Sembra ci siano stati vizi di forma nell’organizzazione di alcune manifestazioni. Le operaie danno una lettura diversa: Galeotti, per rendere molto più visibile il caso Omsa, ha sollevato un gran rumore e questo, evidentemente, ha impaurito perfino la Cgil.
Tutt’altra la versione di Vincenzo Colla, segretario generale Cgil Emilia-Romagna, “il direttivo discute su valutazioni politiche e professionali, e non personali” (Il Corriere di Romagna).
Le operaie, invece, agiscono sulla base di valutazioni politiche, professionali ma anche – visto che si parla delle loro vite – personali. Alcune di loro, infatti, riconsegnano la tessera d’iscrizione alla Cgil.
Intanto siamo a ottobre e 242 lavoratrici aspettano di avere notizie sulla riconversione degli impianti faentini. Il 14 marzo 2012 cesseranno anche gli ammortizzatori sociali.
E non basta. Il piano industriale della Golden Lady, in ossequio ad una “visione del business in chiave strategica” e ad un “crescente orientamento al mercato”, prevede ulteriori riduzioni della presenza in Italia. Nel mirino gli stabilimenti di Gissi (Chieti) e di Basciano (Teramo).
Anche per loro, dunque, la stessa domanda: quante donne sei? Le licenziamo tutte.
[Mauro Orletti]
Io non compro più calze Omsa, Golden Lady, Filodoro eccetera. E’ in corso una campagna che si chiama Boicotta OMSA, forse l’avete vista, invita a non comprare i marchi Golden Lady visto che vogliono licenziare 350 dipendenti (320 donne).
Ci sono un sacco di piccole aziende che vendono calze made in italy perché veramente prodotte in Italia. Cerchiamole e compriamo da loro.
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