Addio al celibato

C’è un’opera di Duchamp che è bellissima, Il Grande vetro, anche se il titolo esatto dovrebbe essere La sposa denudata dai suoi celibi. Dentro quest’opera c’è un particolare bizzarro: una sorta di oscuro meccanismo, anzi un complesso di meccanismi, che non ha altra funzione se non quella di far scivolare un’iscrizione dalla parte alta a quella bassa dell’opera. Marcel Duchamp l’ha chiamata “macchina celibe”. Che è un nome straordinario. Ti fa subito pensare ad una macchina che non si capisce bene come funziona e a cosa serve, un’invenzione strampalata che non solo è perfettamente inutile, ma è anche inefficiente, dato che consuma più di quanto rende. Artisticamente perfetta (i surrealisti l’adottano immediatamente), politicamente scorretta (ancor più del vero archetipo di macchina celibe… la ghigliottina), economicamente insostenibile (produce qualcosa, ma non plusvalore).

Ora, Marcel Duchamp aveva fatto il bibliotecario e questo fatto, secondo me, ha influito tantissimo nella faccenda della macchina celibe. Infatti la biblioteca, non solo quella dove lavorava Duchamp, anche le altre, tutte le biblioteche erano luoghi a rischio: c’era la possibilità che diventassero una roba inutile e inefficiente.

Un giorno, diciamo un martedì, Duchamp era lì con un collega e un bel momento, visto che si annoiava, perché il martedì c’era sempre poco lavoro in biblioteca, potrebbe aver fatto questa domanda: ma secondo te, potrebbe aver detto rivolto al collega, che nel frattempo aveva smesso di leggere il giornale, ma non sarà che l’accesso all’informazione sia più importante del possesso del documento in cui l’informazione è contenuta?

In effetti, se uno si mette a pensare a quello che succede oggi, automazione di cataloghi bibliotecari, servizi di consulenza bibliografica on-line, conversione di repertori, cataloghi, enciclopedie… in documenti informatici, può essere che gli venga la domanda: ma che senso c’ha che le persone vadano in un certo luogo per prendere delle informazioni che, in fondo, vivono benissimo nella dimensione, a libero accesso, della rete globale?

Quello di rilegare libri è un vizio che nasce nel terzo secolo in ambiente cristiano. C’è bisogno di mettere un freno alla diffusione dei testi apocrifi e allora si prendono delle parole, le si infila nelle pagine, poi le pagine vengono messe una sull’altra, poi vengono rilegate, poi viene aggiunta una copertura e insomma, quello che viene fuori è un libro, una cosa finita che si capisce che è finita, una cosa alla quale non si possono fare aggiunte. Al papiro, sì, si possono fare delle aggiunte, invece al libro no. E quindi poi nascono le biblioteche, per raccogliere i libri. Biblioteche private e biblioteche di stato. La Marciana a Venezia, la Laurenziana a Firenze, la Braidense a Milano. Biblioteche infinite, come la Library of Congress negli Stati Uniti. Biblioteche universitarie: quella del Trinity College a Dublino o la Library di Oxford.

La Biblioteca Universitaria di Bologna è uno dei luoghi in cui hanno da poco inaugurato The Infinite Library, un progetto di due artisti berlinesi, Daniel Gustav Cramer e Haris Epaminonda, che per spiegarlo dicono così: “È un ampio archivio di libri, ognuno creato tramite libri già esistenti, numerati come fossero nuovi volumi. Ogni volume ha una sua struttura propria riassemblata ogni volta a partire da un materiale originale e dalle possibilità che questo offre. Mentre la biblioteca si espande con l’aggiunta di nuovi libri, ogni singolo volume porta con sé il potenziale di diventare il centro di una installazione spaziale, una estensione del soggetto, della forma, del contenuto, del ritmo e della logica del libro”.

In sostanza i due artisti berlinesi si procurano libri, antichi e di modernariato, usati, illustrati, commentati, riviste, cataloghi… e li smembrano, li combinano, li ritoccano, li truccano, duplicano le pagine, dimezzano il fronte, poi li assemblano di nuovo, li rilegano addirittura, con un’operazione (di certo affascinante) che è anche ontologicamente contraria al concetto di libro, ne contraddice l’origine e ne estende all’infinito le potenzialità. Il libro perde i suoli limiti convenzionali, la sua funzione, la sua utilità… ma non diventa una macchina celibe. In esso l’artista mette ciò che vuole ed il lettore può tentare una ricerca che, a dispetto della sua aleatorietà (il contenuto dei libri prescinde dal titolo e non può essere intuito e neppure sistematizzato), può comunque portare a risultati soddisfacenti. Il lettore ricava dati utili, almeno dal suo punto di vista, grazie ad uno sfogliare e leggere del tutto casuale.

Lo stesso effetto si potrebbe ottenere sfogliando e leggendo Tristano, di Nanni Balestrini. Che 45 anni fa (anno più anno meno) già s’è messo a sperimentare con il riciclo delle fonti scritte. Attinge, senza fare nessunissima discriminazione, a manuali di fotografia, saggi di botanica, letteratura di genere giallo-rosa, guide turistiche… e mette insieme un testo in cui ogni frase, ogni singola frase è un romanzo a sé, un micro-romanzo non narrato e non narrativo. Tanto che Feltrinelli piazza in quarta la frase: “senza trama, senza personaggi, senza stile”. Quasi uno slogan.

Inutile e inservibile come una macchina celibe? Non proprio. L’era digitale permette a Balestrini di andare oltre. Ogni copia – delle 2500 stampate da Deriveapprodi nel 2007 – è il risultato di un diverso assemblaggio delle componenti del Tristano. Ogni copia viene ricombinata automaticamente da una stampante appositamente programmata. Ogni copia è diversa. Un libro aperto che, grazie a diverse combinazioni, crea infinite varianti di se stesso. Un libro che – come dice Luigi Weber nel saggio Con onesto amore di degradazione – demolisce “l’unicità serializzata della merce riprodotta”.

E questo (come The Infinite Library) è un modo per fare del libro una cosa utile, che non può essere tecnologicamente superata, che va gestita.

Prima del digitale, in epoca – diciamo così – preinformatica, la questione libro non era tecnica… era già concettuale. Cioè, per esempio, chi andava in biblioteca a cercare un libro sapeva già leggere. Il vero problema era come organizzare le informazioni. Da chi farle organizzare. Un bibliotecario? Un artista berlinese? Duchamp?

Se oggi le biblioteche continuano ad esistere, forse, dipende dal fatto che sono diventate anche un po’ il contrario di quello che erano: non più luoghi dell’onnicomprensivo ma luoghi in cui è possibile trovare qualcosa, non tutto. Luoghi che, se continuano ad espandersi, lo fanno però ad un ritmo molto più lento del ritmo con cui aumentano e diventano accessibili (e ingestibili) le informazioni. Che, infatti, producono un sovraccarico inutilizzabile. Una macchina celibe, anzi no… sterile.

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